Intervista. Parolin: «Medio Oriente, la soluzione c'è. Ma in realtà nessuno la vuole»
Il Medio Oriente e la difficile questione di Gerusalemme e dei Luoghi Santi è nel cuore della Santa Sede: «L’impegno è per una pace permanente». Nel contesto dell’ottocentesimo anniversario del Perdono di Assisi, il segretario di Stato, Pietro Parolin, parla ad Avvenire dei conflitti in atto che lacerano la realtà e della strada maestra per una possibile soluzione.
Dalla Siria al Venezuela sembra si parli un altro linguaggio rispetto a quello della riconciliazione… Quale appello può essere rivolto da Assisi in particolare ai governanti e a coloro che possono fare scelte decisive?
Direi soprattutto di tener conto del grido della gente, dei poveri. Spesso si è sordi di fronte al grido che sale dalla base, dalle popolazioni che chiedono a gran voce la pace. Non a parole. Basta vedere le lacerazioni che tante popolazioni sono costrette a vivere: questo è un grido alla pace. I responsabili devono aprirsi a questo grido e non giocare sulla loro pelle. Non si tratta di limitarsi ai giochetti di politica internazionale, qui si tratta di dare risposte concrete, positive alle esigenze della gente. Se si fosse aperti a questa voce, penso si cercherebbe veramente di trovare una strada per risolvere i tanti problemi che lacerano la realtà di oggi.
Tra i conflitti attuali, qual è quello che la preoccupa di più?
Sono molti e tra questi certamente c’è il Medio Oriente, che resta sempre molto vivo nella sensibilità della Santa Sede. Oggi la situazione è nuovamente tesa e desta grande preoccupazione. Anche per i conflitti nell’area mediorientale il punto cruciale è lo stesso: bisogna realmente impegnarsi per arrivare ad una pace permanente.
I recenti scontri a Gerusalemme mostrano però ancora una volta come il conflitto israelo-palestinese sia paradigmatico di tutti i conflitti che lacerano non solo quella regione…
La Santa Sede considera Gerusalemme unica e sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani e già da tempo ha dato i suoi criteri e indicato le condizioni. E cioè che Gerusalemme sia riconosciuta come luogo di cittadinanza per tutti i credenti, sia “città aperta” nel senso di riconoscere la libertà religiosa e i diritti di tutti e che questi siano rispettati.
Secondo lei ci sono adesso le premesse per andare in questa direzione?
Le premesse sono quelle indicate. Se aumenta la tensione diventa necessario evitare l’escalation del conflitto. Il problema è sempre uno al fondo: ci vuole la volontà politica. In campo internazionale possiamo parlare di tante soluzioni possibili e avviabili, ci sono, c’è la possibilità di rispondere con proposte concrete che possono essere davvero risolutrici, ma purtroppo sembra mancare la volontà di ciascuno nel mettere da parte qualcosa del suo, nella formula del compromesso.
La proposta della Santa Sede di uno statuto internazionalmente garantito per salvaguardare il carattere storico e religioso di Gerusalemme e il libero accesso per tutti ai Luoghi Santi è ancora valida o è stata superata dai fatti?
Quella prospettiva è senz’altro tutt’ora valida. Non mi sembra che rispetto a questa siano state indicate alternative in grado di risolvere i problemi e le tensioni su Gerusalemme. Le manifestazioni di violenza che abbiamo visto stanno a dire che il problema deve essere risolto a livello internazionale.
Lei si è molto adoperato per la crisi del Venezuela, intervenendo per facilitare i negoziati. Considerato lo stato attuale dei fatti si deve ritenere un fallimento l’impegno della Santa Sede?
No. Non c’è alcun fallimento. La diplomazia della Santa Sede è una diplomazia di pace. Non ha interessi di potere né politico, né economico, né ideologico. Il Papa ha ricordato che quando ci troviamo di fronte a una situazione di crisi bisogna sempre considerare come opera la Santa Sede: è per una diplomazia pro attiva e non soltanto reattiva, quindi noi cerchiamo di portare sempre il nostro contributo. Se a volte questo non riesce l’importante è darsi da fare. Quindi non parlerei di fallimento. Nel caso del Venezuela ci possono essere opinioni diverse ma l’importante è tentare di dare risposte attuabili in base alla situazione, soprattutto nel tenere in conto le condizioni reali della popolazione e del bene comune che deve venire prima di tutto.
Diversa è attualmente la situazione in Colombia che sembra entrata in una nuova fase storica, seppure con molte incognite e incertezze. Si prevedono ulteriori sviluppi positivi alla vigilia della visita papale?
La Colombia è una speranza e speriamo che questo trend positivo, pur con tutte le debolezze e le difficoltà che ci sono, possa essere rafforzato con la visita di papa Francesco. Il Papa vuole andare in Colombia certamente per un motivo principe: promuovere la riconciliazione. Credo che al di là delle formule tecniche dell’accordo di pace quello di cui ha bisogno il Paese sia di una riconciliazione profonda al suo interno in modo tale da intraprendere su basi solide il cammino della pace. Ci sono divisioni politiche, pertanto anche politicamente questo viaggio è un segno forte.