Volti di bambini. Volti sfigurati. Volti senza sorriso. Ci fermiamo a guardare le foto in bianco e nero. «Labio-palatoschisi. Voi capite meglio se dico labbro leporino...». Fabio Massimo Abenavoli ci stringe la mano e continua a spiegare. «Ogni anno nascono nei Paesi del Sud del mondo 160 mila bambini con questa malformazione. Si nutrono male, prendono più facilmente infezioni e, poi, non possono ridere». Una pausa leggera. «In Uganda li chiamano "Ajok", "perseguitati da Dio". Sono piccoli esclusi, isolati, senza futuro; sono vittime di pregiudizi e di cattiverie e hanno un disperato bisogno di noi». Ci facciamo presto un’idea: la seconda vita di Abenavoli sembra avere, mese dopo mese, la meglio sulla prima; le missioni in Tanzania, in Benin, in Iraq del chirurgo volontario sembrano togliere spazio agli interventi del chirurgo estetico di successo nelle cliniche private di Roma.
Siamo nella sede romana di "Emergenza sorrisi" per capire i perché. Perché rinunciare a denaro, a vacanze di lusso, a pazienti famosi? E perché scegliere di operare su un camion o su un barcone trasformati in sala operatorie? Perché le incognite rispetto alle certezze? Le domande semplici servono anche a ridurre le distanze e a raccontare un uomo e un impegno. Abenavoli risponde di getto. «Perché lì, nel Sud del mondo, quello che ricevo è nettamente di più di quello che do. L’Africa è dura: ho preso epatite, malaria, ho operato in condizioni drammatiche, ma ho sempre pensato che la mia vita deve essere così, costruita attorno a un punto fermo: la solidarietà.
Io voglio essere una persona utile e nei lunghi esami di coscienza mi ripeto: vivere per gli altri è vivere due volte, solo così la nostra vita ha un senso». Ora il chirurgo vuole rispondere a chi non capisce, a chi gli continua a domandare "perché lo fai? Dov’è il ritorno economico?". «Guardate quei volti, guardateli prima e dopo l’intervento. Eccolo il guadagno. Nessuno nella nostra vita si affida così tanto a noi come quei piccoli e come i loro genitori. Lì, nell’Africa povera o nell’Iraq martoriata dai conflitti, quella fiducia è totale. Lì, ci mettono nelle mani i loro figli. È questo il valore della vita».
Seduti su una terrazza assolata parliamo delle sfide di "Emergenza sorrisi". «Tremiladuecento bambini operati gratuitamente dal 2007 in settanta missioni», ci dice con una punta di orgoglio Abenavoli. In una cartellina ci sono foto, numeri, storie. C’è quella di Chico, un piccolo del Mozambico abbandonato dai suoi genitori per una malformazione al voto, curato dai chirurghi volontari e adottato da una famiglia italiana. E quella di Shabana, una bimba afghana: aveva un tumore al volto, è stata operata e ora sta bene.
È un impegno contagioso. Nel 2014 Emergenza sorrisi ha operato 271 bambini, ne ha visitati settecento, ha formato 43 medici locali. Il gruppo cresce mese dopo mese. Sono 260 i volontari partiti dall’Italia. 160 sono medici. Vengono da ospedali cattolici e da strutture pubbliche. Dal Gemelli e dal Fatebenefratelli di Roma, dal Monaldi e dal Policlinico universitario Federico II di Napoli, dal Miulli Acqaviva di Bari... «È una gara di solidarietà contagiosa. Chi viene vuole tornare; chi torna vuole portare un amico. Io la chiamo la "peste buona"». È una vita bella, fatta di umanità e di impegno. Una vita che fa tornare alla mente un tweet di Papa Francesco del 25 luglio: "La testimonianza cristiana è concreta. Le parole senza esempio sono vuote".
L’agenda di "Emergenza Sorrisi" è fitta di appuntamenti. «Noi ci siamo. Sempre. Ci chiamano dalla Guinea? Ci siamo. Anche se c’è l’Ebola, anche se è pericoloso. Siamo dove si soffre, siamo dove serviamo: curare è la nostra preghiera laica. Curare in Sierra Leone e in Burkina Faso. Siamo volontari, siamo medici: la nostra vita è anche questa». Una pausa leggera. «...E poi c’è l’Iraq, la nostra Iraq. Siamo tornati 12 volte in questi sette anni; abbiamo operato mille bambini. L’ultima missione a Nassiriya si è conclusa l’11 giugno. Ora torniamo il 12 novembre».
Si ferma su quella data Abenavoli. La ripete tornando a pescare nella memoria: «12 novembre 2003. Sono morti soldati che erano andati laggiù per aiutare, non per combattere. Gente come noi: missionari. Sì, quei carabinieri erano proprio dei missionari». All’improvviso la nostra conversazione diventa serrata con le domande e le risposte che si accavallano senza più pause. Abenavoli, le vostre missioni si svolgono spesso in territori difficili: ha paura? «Mai avuto scorte. La gente ci capisce, ci vuole bene. Siamo medici e siamo italiani». Ma l’Is in quelle terre... Il chirurgo ci ferma con un gesto della mano: «L’Is sono solo terroristi, non sono persone: portano odio, non hanno passaporti. L’Islam è un’altra cosa. Con l’Islam si parla, si costruisce, ci si confronta». Il messaggio, parola dopo parola, diventa sempre più chiaro: le missioni possono avvicinare, possono unire.
Abenavoli ci mostra una foto di Najaf, una città sacra dell’Islam sciita quasi duecento chilometri a sud di Bagdad. «Ricordo sempre quei giorni. Noi, unici stranieri, nella moschea. Le loro preghiere e il nostro incontro con le autorità religiose. Ricordo una donna venirmi incontro e mettermi nelle mani il "tasbih", il rosario islamico. La guardai, la riconobbi: le avevo curato un figlio. Ora, dopo il suo piccolo, ci affidava anche le sue preghiere».
Da oltre un’ora le immagini si accavallano ai ricordi, le sfide ai progetti. «Bastano 250 euro per un intervento, per ridare una vita a un bambino. Basterebbe che ogni persona che legge questa storia decidesse di donare 5 euro...». La conversazione all’improvviso vira sui costi delle missioni e sui fondi che non bastano mai. «Con 25 mila euro partiamo e operiamo novanta bambini. Bisogna fare le cose a risparmio. I voli a basso costo e rigorosamente in classe economica. I pulmini per spostarci offerti dai Paesi dove andiamo a operare. Ci arrangiamo su dove dormire e su cosa mangiare. I soldi servono solo per curare e ne servono sempre di più».
All’improvviso ci si interroga sulla capacità dell’Italia di essere davvero solidale. Abenavoli risponde senza tentennare: «In Italia la solidarietà c’è. Ma gli italiani pretendono trasparenza e noi vogliamo essere trasparenti: bilanci certificati, dati pubblicati sul nostro sito...». La trasparenza per far crescere le donazioni? Un sorriso amaro "taglia" il volto del chirurgo: «Qualche tempo fa lessi di una grande azienda che aveva finanziato un partito politico con 150mila euro. Provai a contattarli; beh, nemmeno mi hanno risposto. Ho provato una grande tristezza nel vedere che c’è ancora troppa gente che lega tutto a un interesse».
Lasciamo la sede di "Emergenza sorrisi" e, sulla porta, facciamo ad Abenavoli un’ultima domanda: lei crede, lei ha fede? «Ho fede in Dio e fede in quello che si fa. Fede nel valore dell’uomo, della vita. Ho nella testa ben ferma la parabola dei talenti. Conosco uomini pieni di capacità che puntano su strade sbagliate, che pensano solo a se stessi. Io voglio essere utile... E poi come potrei non avere fede?». Restiamo in silenzio. «Se io non credessi cosa sarebbe la mia vita? Cinque mesi fa ho perso mio figlio di cinque anni. Un tumore. Dio ha deciso così e io penso che lui da lassù sta con noi, al nostro fianco, come un piccolo angelo. Sì, ho perso il mio bambino, ma in ogni missione divento il papà di tanti bambini. Vado avanti così, con fede e passione, perché curare è la mia preghiera».