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REPORTAGE. Marocco, le dune della disperazione

Marco Benedettelli, Gilberto Mastromatteo, Claudio Zerbetto domenica 12 settembre 2010
Sotto gli scheletrici pilastri di cemento di un silos una donna nigeriana è accasciata al suolo. Il suo sguardo è perso nel vuoto. Intorno a lei c’è solo la terra bruciata dal sole. Siamo nel profondo est del Marocco, a pochi chilometri dal confine algerino, fra la città di Oujda e Maghnia. La donna che dondola la testa è solo una delle migliaia di migranti che la polizia marocchina scarica ogni notte in questa zona ai margini del Regno. Nei primi tre mesi del 2010 i deportati sono stati 1.170. Africani sub-sahariani, ma anche indiani, bengalesi e pachistani. Arrestati mentre tentavano in qualche modo di risalire verso l’Europa. In Marocco la politica delle deportazioni dei migranti irregolari è articolata su due fronti. A Sud verso il Sahara. A Est verso Oujda. Chi viene bloccato mentre tenta di raggiungere le Canarie si ritrova respinto sul confine fra Sahara Occidentale e Mauritania. Ma il rafforzamento dei controlli via mare da parte del Frontex ha drasticamente diminuito le partenze per l’arcipelago. La grande maggioranza dei migranti ora tenta il passaggio a Nord-Est, verso l’enclave spagnola di Melilla. Lungo quel tragitto che inanella Maghnia, Oujda, Berkane, Zaio, Nador, la collina del Gourougou, e poi Beni Enzar, sul confine con la Spagna. Chi è arrestato fra queste città, viene rispedito indietro sul confine algerino. Trasportati in pullman, di notte, senza acqua né cibo, i deportati di Oujda si ritrovano invischiati nella rete di trafficanti d’uomini e piccoli gangster, che controllano la comunità nomade dei migranti. Ogni nazionalità ha la sua organizzazione, la più potente è la nigeriana. Una situazione di abbandono dove vige la legge del più forte. Médecins sans Frontieres, nel rapporto "Sexual Violence and Migration", denuncia che due donne su tre, in questo fazzoletto di terra, subiscono violenze sessuali. Piegate dalle mafie, in molte finiscono con il prostituirsi per ripagarsi il viaggio, o vengono ridotte direttamente in schiavitù. Fino a qualche anno fa le donne costituivano il solo 2 per cento del flusso migratorio. Oggi su cinque "clandestini", uno è donna. Un aumento che indica quanto sia ancora redditizia la tratta della prostituzione.Molte partono completamente ignare del destino che le attende. La mafia dei migranti le intercetta e le costringe a condividere con venti, trenta uomini i rifugi di fortuna dove nascondersi. Qui, ridotte alla stregua di una proprietà comune, vengono violentate dai compagni di viaggio. E neppure la polizia si sottrae a tali brutalità. Il dottor Francisco Rapela, giovane neurologo responsabile di Msf a Oujda, racconta il caso di una ragazzina congolese di 15 anni: «Veniva da una famiglia relativamente benestante – dice – ed era partita con un’idea totalmente vaga di come sarebbe proseguito il suo viaggio per l’Europa. Prima che Msf la soccorresse a Rabat, è stata violentata dai poliziotti marocchini, poi dai trafficanti di uomini e da altri migranti come lei».Percorriamo le dissestate strade sul confine tra Marocco e Algeria a bordo della jeep di Msf. Francisco Rapela e i suoi colleghi sono tra i pochi ad avere una visione d’insieme della situazione. Nei loro giri settimanali portano medicinali, curano le infezioni intestinali e i problemi renali causati dall’acqua sporca con cui qui ci si disseta. Medicano le contusioni inflitte dalla polizia durante le deportazioni. Parlano con i disperati e le disperate della no man’s land. Con lui visitiamo una casa a ridosso di un connettore fognario. L’odore nell’aria è insostenibile, tanto da valere per la zona il nome di Smelly Water, "acqua maleodorante". Dentro vivono ammassati 40 migranti. Dal tetto di alcuni casamento spunta addirittura una parabola. I trafficanti di uomini hanno voluto dotarsi di tv.Ma molti degli irregolari non si fermano tra Oujda e il Marocco. C’è chi, scaricato qui dalla polizia, percorre tutta la statale N6 e si incammina verso le colline di Oujda. Oppure raggiunge il campus dell’università, dove – caso davvero singolare – stazionano centinaia di rifugiati irregolari intorno alla facoltà di Giurisprudenza o nascosti nelle case per studenti dei quartiere di Sidi Maafa. Qui i migranti sono arrivati nel 2004. L’anno in cui una violenta protesta studentesca sfociò nella repressione poliziesca. Da allora vige un compromesso: la polizia può entrare nella facoltà solo dietro autorizzazione del rettore. Vigilano sul patto anche i due maggiori gruppi studenteschi, i musulmani Friars e i Marxist. Tre mesi fa, un’auto della polizia che aveva valicato i cancelli dell’università è stata ribaltata da un gruppo di giovani marocchini. Gli studenti con cui parliamo ci spiegano di non essere infastiditi dalla presenza di sub-sahariani nel campus. Sottolineano, anzi, di sentire un forte senso di fratellanza con questa gente, povera come lo è il loro popolo.Uno studente di legge ci accompagna dai nigeriani, rintanati sotto le tende nel cortile della facoltà. Nessuno parla, finché non arriva il capo dell’accampamento che gesticola, si atteggia come il boss di una gang americana e ci invita molto seccamente ad andarcene. Altri migranti passeggiano fra i viali del cortile. Malridotti, feriti. Chiedono l’elemosina. Il commento del vicerettore dell’Università, Aomar Anane, è molto franco: «La situazione è irregolare, anormale. Nelle tende del campus vivono 400 migranti, con rischi sanitari di ogni tipo. Qualcuno spaccia droga, altri denaro falso. Di giorno vanno in città, a cercare lavoro. Rientrano di notte. Gli studenti offrono loro copertura, impedendo ogni azione di forza all’interno del campus. E poi ci sono i conflitti etnici fra loro».Il vicepreside si riferisce ai continui scontri fra i gruppi francofoni e anglofoni. Ad aprile è scoppiata una gigantesca rissa fra nigeriani e altri africani, congolesi e camerunesi soprattutto. La comunità più forte resta quella nigeriana. La cui leadership cambia continuamente e ricalca le faide in patria tra le etnie Yoruba e Igbo o tra i pastori musulmani Fulani e gli agricoltori cristiani Berom, nella zona di Jos. Tutti, fra i giovani migranti con cui parliamo, sognano di scappare da questo inferno il prima possibile. In tanti ci hanno provato, ma sono stati rispediti a Oujda, in un eterno ritorno che ha tutta l’aria di un girone dantesco.