Una sentenza della Corte d’appello priva da ieri i cristiani malaisiani della possibilità di usare il termine “Allah” nei loro testi e – nell’interpretazione più restrittiva che già ne danno gli islamisti – nelle liturgie.La sentenza, nelle intenzioni di radicali e governo, ha chiuso una vicenda iniziata nel 2007, quando il ministro dell’Interno malese proibì al settimanale diocesano cattolico
The Herald di utilizzare il vocabolo nelle sue parti in lingua malese, pena la perdita del diritto alla pubblicazione. La decisione è stata presa all’unanimità dai tre giudici (perché la pratica «causerebbe confusione nella comunità») che hanno così accolto le ragioni del governo, che il 21 agosto era stato ammesso all’appello nonostante una petizione in senso contrario avanzata dall’arcidiocesi di Kuala Lumpur il 9 luglio. Intenzione del governo, che si è posto in prima linea nella controversia: ribaltare il giudizio favorevole alle minoranze emesso nel 2009 dall’Alta corte a seguito della causa promossa dall’arcidiocesi a sostegno delle posizioni di
The Herald. Negli ultimi mesi, la vicenda che aveva riacceso le tensioni tra le comunità aveva a un certo punto anche coinvolto il Nunzio vaticano. Per avere definito «logica e accettabile» la posizione della Chiesa nella controversia, il 16 luglio monsignor Joseph Marino era stato convocato al ministero degli Esteri di Jakarta per chiarimenti e successivamente era stato oggetto di attacchi di gruppi estremisti che lo avevano definito «un nemico del Paese». Terminologia forte a segnalare il livello di guardia raggiunto dalla controversia. Il malese (Bahasa Malaysia), lingua dalla struttura grammaticale semplicissima ma da vocabolario assai composito, che rispecchia le complesse vicende storiche in cui si è evoluto fino a diventare nel 1957 idioma nazionale, ha per secoli utilizzato “Allah” sia nell’ambito islamico, sia cristiano, similmente a molti altri altri Paesi musulmani, arabi e non arabi. Il malese ha un altro vocabolo proprio, che gli islamisti vorrebbero usato dalle minoranze: tuhan. Un termine che già nella nella Bibbia malese viene spesso utilizzato con significato onorifico, “Signore” e (profeta) Gesù. Non un sinonimo, quindi.Come sottolineato dal Consiglio malaysiano delle Chiese, «molte comunità indigene della nazione hanno incorporato questa parola (Allah) nella lingua corrente», da qui la determinazione a «continuare con questa pratica e chiediamo a tutte le parti di rispettare questo diritto fondamentale».Lo stesso arcivescovo della capitale, monsignor Murphy Pakiam, ha richiamato con l’agenzia
Fides alla reazione del Consiglio delle Chiese di Sabah e Sarawak. «I vescovi hanno puntualizzato che nelle chiese e nelle liturgie si continuerà a usare il temine Allah. La sentenza riguarda solo l’
Herald e non riguarda la nostra Alkitab, la Bibbia in lingua malese». «L’incognita – nota l’arcivescovo – è rappresentata dai gruppi radicali islamici, che potrebbero dare una interpretazione restrittiva alla sentenza».Interpellato dalla stessa
Fides, padre Lawrence Andrew, direttore di
The Herald, ha dichiarato: «Siamo delusi, perché il verdetto viola un diritti alla libertà religiosa e di espressione sanciti nella Costituzione». «Ricorreremo alla Corte suprema, quella federale» perché, ha aggiunto, la sentenza «è stata evidentemente condizionata da pressioni politiche». La prima posizione legale contro l’uso della terminologia arabo-islamica in testi cristiani è una fatwa dello Stato federato di Selangor del febbraio 2010, ma da allora la vertenza si è radicalizzata e, soprattutto, politicizzata. La sponsorizzazione della supremazia malese in un contesto naturalmente multietnico e plurireligioso e la necessità per il governo di concedere spazi sempre più vasti all’islamismo meno tollerante sta chiudendo spazi di dialogo e aprendo nuove e inquietanti incognite.