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Venezuela. A Caracas le baraccopoli sono in rivolta contro il presidente Maduro

Estefano Tamburrini, Caracas sabato 17 agosto 2024

I militari dei reparti speciali venezuelani durante un’operazione nel quartiere popolare di Petare, nella capitale Caracas

Ogni sera, i poliziotti perlustrano il quartiere-baraccopoli di Petare. Marciano a passo svelto, con il volto coperto. Indossano divise antisommossa e impugnano armi da guerra. Gli agenti rispondono alla Dirección de inteligencia y estrategia (Die), corpo di della Policia nacional bolivariana (Pnb) spesso denunciato per eccessivo uso della forza. Prima la polizia non si recava quasi mai a Petare, ma ora è sempre nel quartiere: perquisiscono e arrestano le persone, entrano nelle case. Controllano anche le donne, che un tempo non venivano mai disturbate. La costante presenza degli agenti annuncia la fine del sodalizio tra il palazzo presidenziale di Miraflores e le classi popolari. Prima dell’arrivo delle pattuglie, c’è già un silenzio assordante. Vicoli e scalinate si svuotano. Alle 20 le famiglie sono già chiuse in casa. È un coprifuoco di fatto. È la prima volta, dopo 25 anni di governo, che il chavismo perde il voto dei poveri. Sono stati gli abitanti dei “ranchos” – le baraccopoli – a scendere da Petare e altri quartieri fino a Plaza Altamira quando il Consejo nacional electoral (Cne) ha annunciato la vittoria di Maduro. Durante le manifestazioni sono stati arrestate più di mille persone, soprattutto giovani. Alcuni di loro tuttora prigionieri.

Questo non ha impedito ai residenti di Petare di scendere di nuovo in piazza ieri: la grande marcia dell’opposizione a Caracas è partita proprio da lì. Sfidando la repressione. È il caso di Alexandra, pseudonimo che usiamo per garantirne l’incolumità. Ha 43 anni ed è leader di comunità a Petare. Ora dorme fuori casa. «È la prima volta che vado via dal quartiere. Ora temo che possa succedere qualcosa a mia madre. Sai, quando non ti trovano se la prendono con i parenti. Stanno andando nelle case a prelevare le persone». Teme anche per la propria vita. E ne parla a più riprese, quasi a prepararsi o a scongiurare l’indesiderato epilogo. Alexandra non ha dubbi. Gli esiti elettorali presentati dall’opposizione corrispondono ai verbali emessi dalle macchine elettorali a fine scrutinio. «Abbiamo gli atti – afferma, riferendosi ai verbali – e sappiamo che Edmundo González ha vinto». Per le elezioni, Alexandra ha lavorato insieme a un gruppo di volontari per «monitorarne la regolarità. Abbiamo cercato di evitare gli abusi di potere da parte dei militari. Non sono mancate le provocazioni ma la nostra lotta è nonviolenta».

«Qui – osserva – vogliamo pensarci come un’unica comunità capace di autogestirsi, risolvere i propri problemi ed essere solidali con chi ne ha bisogno». Per la leader sociale, la svolta di Petare ha una ragione: «Le persone sono stanche di essere considerate “un serbatoio di voti” da forze politiche che si ricordano di loro ogni volta che ci sono le consultazioni per poi dimenticarsene». «Petare – aggiunge – ha creduto in una promessa di emancipazione che non è avvenuta. Il regime di Maduro, così come i governi della Repubblica prevedente all’amministrazione chavista, ha cercato di dare i pesci alle persone senza insegnarle a pescare. Ora però c’è la crisi. Neppure i pesci ci sono più». In Venezuela, il reddito medio è appena sufficiente per comprare meno della spesa minima di una famiglia per coprire le necessità di base, circa 550 dollari. «Noi, invece – commenta –, crediamo che il leader sia chiunque sia disponibile a prendere una scopa in mano e pulire la propria strada». Ne è convinta anche Tami, donna di 54 anni ed ex-militante del Partito socialista unido venezolano – quello di Maduro – che si presenta come «socialista e rivoluzionaria». «La rivoluzione – sostiene – non significa sostenere un singolo partito, bensì aspirare a un miglioramento costante».

Un ideale del tutto accantonato dopo la morte di Hugo Chávez nel 2013, con l’abbandono delle “misiones” di alfabetizzazione, cultura e alimentazione promosse nei primi anni duemila. «Ho visto venir meno progetti importanti, come i progetti educativi Rivas, Robinson e altri» commenta Tami, che a Petare gestiva 38 consigli di comunità. L’ex-dirigente non ha smesso di impegnarsi per il quartiere. «Ogni volta che le persone chiedono una pratica, mi occupo di renderle autonome. Le persone devono essere consapevoli dei propri diritti, senza che qualcuno si sostituisca a loro». In questi giorni, Petare ricorda con ironia lo spauracchio con cui il chavismo teneva a bada le rivolte a Caracas. «Si diceva sempre:“Cuidado, porque bajan los cerros”», cioè, “attenti perché la gente delle baraccopoli potrebbero scendere dalle colline e arrivare in città. Un riferimento alla grande insurrezione popolare dei quartieri popolari conosciuta come il “Caracazo” del 1989, considerato l’inizio della svolta che avrebbe portato il chavismo al potere. Di nuovo, ventidue anni fa, la mobilitazione dei “ranchos” era stata fondamentale per fermare il golpe contro Hugo Chávez.

«Ma Maduro non è Chávez», dicono i residenti di Petare mentre si salutano: «Certo che abbiamo paura di protestare. Sarebbe da sciocchi negarlo, ma le cose devono cambiare e la volontà popolare dev’essere rispettata. In tanti sono andati via per riuscire a sopravvivere. E non vogliamo che le famiglie si separino più».