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Siria. L'ossessione anti-iraniana di Trump. Ma l'attacco è segnale di impotenza

Riccardo Redaelli domenica 15 aprile 2018

Tanto tuonò che infine piovve. Ma poco e piano. Proprio perché, dopo le dichiarazioni roboanti di Trump e Macron, l’uso di armi chimiche da parte di Assad non poteva restare senza risposta. Tuttavia, si è trattato di un bombardamento prudente e quasi svogliato da parte delle forze militari statunitensi, sostenute – più per forma che per sostanza – da Francia e Gran Bretagna. Con involontario senso dell’umorismo, il presidente americano ha subito twittato «Missione compiuta», proclama infausto già ai tempi della presidenza di George W. Bush. La domanda da porsi ora è se veramente la missione sia stata compiuta e rispetto a quali obiettivi. L’Occidente ha ribadito che gli attacchi chimici sono una linea rossa da non oltrepassare. Principio sacrosanto.

Ma beati i tempi in cui saranno inaccettabili anche i bombardamenti convenzionali sui civili, fatti dal regime come dai ribelli, che hanno lanciato per anni, dai sobborghi della capitale colpi di mortaio sugli inermi abitanti di Damasco. O non si permetterà più ai nemici, ma anche agli amici, di bombardare in Medio Oriente scuole e ospedali. O ci si scandalizzerà delle dittature solo quando i despoti non servono più, o sono di ostacolo ai piani di qualcuno (da Saddam in Iraq, a Gheddafi in Libia, passando per Mubarak in Egitto).

Il problema sostanziale, più immediato e geopolitico, è tuttavia rappresentato da cosa fare ora in Siria. Il punto di partenza è che Assad la guerra l’ha vinta sul campo. Aiutato da russi e iraniani, nonostante sia con il fiato corto e pochi uomini, il suo regime è più saldo di un anno fa e con molti meno nemici. Rimangono i curdi nel nordest, ma il loro ruolo è limitato dalla Turchia, a dispetto del sostegno statunitense. Le forze sunnite presunte moderate (molto presunte, in effetti) sono state umiliate; ove resistono, lo fanno principalmente perché appoggiate da formazioni (ex) jihadiste. Queste ultime sono anch’esse fortemente indebolite: solo l’ombra della nera coltre di terrore che rappresentavano fino a un anno fa.

Russia e Iran hanno giocato bene le loro carte. Con brutale cinismo, hanno dimostrato di saper raggiungere i loro obiettivi strategici. La Turchia, che ormai gareggia per sé, con la pura forza militare si è ricavata un fazzoletto di terra da cui negoziare con i vincitori. L’Arabia Saudita e la sua corte di Stati arabi hanno perso malamente la partita. Non a caso stanno cercando di rilanciare allargando lo scontro verso l’Iran, con il sostegno di Israele, ormai alleato stretto di Riad.

In questo quadro, spicca la contraddittorietà della posizione statunitense e europea. In verità, il disegno strategico dell’Unione Europea appare semplicemente non pervenuto. Non esiste se non come espressione di politiche puramente nazionali dei singoli Stati. Spesso in aperta contraddizione. Il primo ministro britannico May ha dichiarato che l’obiettivo dell’attacco non era abbattere Assad. Dichiarazione perlomeno bizzarra dato che proprio Londra era stata fra i primi a pretendere che la rimozione del dittatore divenisse una precondizione per ogni trattativa. E aveva spinto affinché l’Europa sposasse questa linea. Macron, che sembra avere una percezione molto televisiva e social della politica estera, ha condotto la Francia a un attivismo pericoloso, dato che il suo sostegno alla causa dei curdi lo porta in collisione con la Turchia di Erdogan. Sovrastima, temo, la forza e il timore che la Francia oggi incute.

Ma la questione fondamentale, ancora una volta, è che Washington appare terribilmente confusa e incerta su cosa fare in Siria. Cambiano le amministrazioni ma non si risolvono le contraddizioni. Un giorno si minacciano uragani di bombe e l’altro si parla di ritirare le truppe. Nel marasma avvelenato che è diventato il sistema politico- militare di Washington sotto Trump, l’unico elemento che spicca è l’ossessione anti-iraniana. Oltre che un senso di crescente ostilità, ma allo stesso tempo di impotenza, verso l’attivismo russo.

Da queste premesse, non sembra potere uscire alcuna soluzione diplomatica, al momento. Mentre aumentano i rischi di un allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente. Eppure è proprio questa l’ora per rilanciare, avviando un nuovo tavolo negoziale inclusivo e che possa dare una speranza di pace vera a una popolazione ormai sfinita.