Londra. Un'altra bimba lasciata morire come nel caso di Charlie Gard
Charlie Gard con i genitori
Purtroppo, succede ancora. La cronaca relativa a malati gravi avviati alla sospensione delle cure senza il consenso delle famiglie è vecchia almeno sei anni. Era il 2014 quando l’indagine sul controverso protocollo di fine vita «Liverpool Care Pathway» portò a galla la tendenza dei medici britannici ad accompagnare alla morte pazienti senza speranza all’insaputa dei loro cari. E nonostante quella procedura sia stata bandita, l’Alta Corte di Londra, chiamata a esprimersi sul caso di una bambina di nove anni, morta due settimane fa dopo essere passata dalle cure intensive a quelle palliative senza che i genitori ne fossero a conoscenza, è dovuta intervenire a ricordare: così non si fa.
Appena accennato dalla stampa locale, il caso riporta sul banco degli imputati il Great Ormond Street Hospital, il famoso ospedale pediatrico della capitale britannica che ha fatto da cornice alla triste vicenda di Charlie Gard, il bambino di neppure un anno a cui il tribunale ha sospeso per sentenza alimentazio- ne e idratazione e di cui, ieri, è ricorso il terzo anniversario della morte. La vicenda, questa volta, riguarda una bambina di nove anni, morta due settimane fa, di cui per motivi di privacy non è stato reso noto il nome, ricoverata presso la famosa struttura in seguito a una lunga malattia che ha fortemente compromesso il funzionamento di reni, polmoni e intestino. Stando alla ricostruzione dei fatti, a maggio, il comitato etico dell’ospedale ha deliberato, a porte chiuse, senza alcun coinvolgimento dei familiari, che per la piccola non ci fosse più alcuna possibilità di guarigione e che pertanto «nel suo miglior interesse» fosse disposto il suo trasferimento dal reparto di terapia intensiva a quello per le cure palliative dove, in genere, vengono trasferiti i pazienti da accompagnare alla morte.
Il giudice chiamato a valutare il caso, Alison Russell, non è entrata nel merito dell’opportunità di proseguire o meno le cure a cui la bambina era sottoposta durante il ricovero, né sull’ipotesi di un eventuale trattamento di dialisi, ma ha bollato come «preoccupante» il fatto che i medici abbiano agito all’insaputa dei familiari. «Il loro coinvolgimento – ha sottolineato – è previsto da linee guida e da un chiaro protocollo». Non c’è, insomma, margine a interpretazioni: qualunque fosse stato l’esito della valutazione del comitato etico era «essenziale» che la famiglia venisse informata.
Ma perché, ci si chiede, questo passaggio obbligatorio non è avvenuto? La dirigenza dell’ospedale, che invano ha chiesto al giudice di omettere il riferimento esplicito al Great Ormond Street Hospital negli atti processuali, ha spiegato che la decisione è stata presa in regime di urgenza, senza avere il tempo di convocare i genitori della paziente perché le sue condizioni stavano precipitando.
Gli avvocati della famiglia ritengono invece che l’ospedale avesse deciso le sorti della loro piccola, addirittura, già prima della riunione che ha ufficializzato il verdetto. E che la direzione si sia mossa con ampio anticipo per organizzare la linea difensiva da adottare in tribunale, prima ancora che si prospettasse la stessa idea di un procedimento. «Siamo stati informati della decisione del comitato etico – spigano i genitori della piccola – due settimane dopo quella riunione». Difficile dire se l’ospedale abbia agito nel rispetto di «procedure preventive» non scritte, scaturite magari dall’esperienza dei casi precedenti, come quello, vistoso, di Charlie Gard, o della consueta attitudine britannica all’efficienza.