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DIETRO IL FRONTE. L’ombra di al-Qaeda sui ribelli: addestratori sospetti a Bengasi

Giorgio Ferrari venerdì 1 aprile 2011
Tenete bene a mente questo nome: Ab­del Akim al-Hassiri. Perché da un po’ ha fatto perdere le sue tracce e sta turban­do il sonno della Cia e dell’MI6 britannico. I quali sanno bene che quando uno come al Hassiri lascia l’Afghani­stan è sicuramente per un buon motivo. Al Hassiri è libico d’origi­ne. Nessuno ce ne par­la, nessuno ne sa niente qui a Bengasi. Eppu­re – sarà una sensazione – ma una traccia, un filo esile che ci porta a lui lo abbiamo trovato in un desolato insediamento militare, appena sfiorato dalla rivolta della Cirenaica. Una volta questa caserma si chiamava “7 A­prile”. A eterna memoria – macabro umorismo libico – di un eccidio di studenti che protesta­vano contro il regime nel 1977. È qui, alle por­te di Bengasi che i “Ligian Thaouria”, ovvero i comitati rivoluzionari – i più ligi guardiani del­la Jamahiria, in pratica i pasdaran di Ghedda­fi – deportavano, chiunque fosse sospettato di non amare abbastanza il rais per metterlo nel­le mani della polizia segreta, che provvedeva a torturarli e, il più delle volte, a farli sparire. Ora questa caserma è diventata un campo di addestramento per shabaab, i giovani guer­rieri della rivoluzione. Visitarlo ha richiesto u­na procedura complicata e non priva di qual­che rischio. Ma ne è valsa la pena, perché ab­biamo visto qualcosa che potrebbe convali­dare molti sospetti che piovono da tutte le can­cellerie occidentali. La convinzione cioè che accanto a quei giovani che ricevono un som­mario addestramento militare, quanto basta per usare un’arma e recarsi al fronte, si muo­va silenziosa ma onnipresente l’ombra di un radicalismo islamico che corrisponde perfet­tamente all’identikit di al-Qaeda. Il primo a parlare è Najib Alì, 50 anni, tecnico petrolifero, sei figli, due dei quali in procinto di arruolarsi anche loro. «Non sono propria­mente un novellino, lo so. Arrivo qui alle 9 del mattino e ci resto fino al tramonto. Ciascuno di noi sceglie un’arma e si occuperà solo di quella. Può essere il kalashnikov o il lancia­razzi, o anche la mitragliatrice pesante. Io ho scelto il lanciarazzi». Giriamo lo sguardo. Una drappello si shabaab è accucciato a terra, un istruttore sta spiegando il funzionamento di una piccola katiusha. «È di fabbricazione co­reana – spiega – modello recentissimo, del 2006, molto facile da adoperare, con una git­tata che supera i 7 chilometri, ma a volte arri­va anche a 9». Nell’occhio un po’ febbrile di questi giovani c’è un misto di ansia e di orgoglio. Come in quelli di Ahmed Kamis, 22 anni, studente. L’u­niversità è proprio a un isolato di distanza, ma qui nella caserma 7 Aprile è come aver cam­biato mondo. «Ho visto scomparire molti gio­vani, molti amici. Quando sono arrivati qui i mercenari di Gheddafi avevano solo bastoni e coltelli, poi è arrivata la polizia segreta e l’e­sercito, e ci sono stati dei morti. La via Nasser (una delle arterie principali di Bengasi, ndr) e­ra piena di sangue». «Abbiamo armi vecchie, Gheddafi non si fida­va della Cirenaica e ci lasciava ferraglia degli anni Sessanta – spiega il colonnello Moham­med Shebi – ma qualcuna gliela abbiamo por­tata via, come questa bellissima contraerea: con questa nessun aereo ha più scampo». Attorno a noi ci sono almeno sei o sette grup­pi di giovani che vengono ammaestrati al me­stiere delle armi. Nessun occidentale nei din­torni, nessun volto europeo. In compenso l’at­mosfera si fa di colpo rarefatta quando arriva un uomo inturbantato di nero, la feritoia de- gli occhi scuri che taglia l’aria, lo sguardo che sembra paralizzare le parole di ciascuno, an­che degli istruttori anziani che interrompono il proprio lavoro. L’esperienza ci insegna che quelle fattezze, quel piglio, quel volto dissi­mulato (che potremmo tranquillamente ve­dere fra gli estremisti delle brigate Ezzedin al Qassam a Gaza come fra gli Hezbollah nel Sud del Libano, o fra i jihadisti nello Yemen o in Sudan) appartengo­no sicuramente a un militante radicale isla­mico. Il suo ruolo nel campo è quello di una sorta di commissario politico, la sua pene­trante autorità – silenziosa quanto pervasiva – non è minimamente in discussione. La sua oc­chiata basta a far sorgere una sorda ostilità nei nostri confronti. Due shabaab (ma forse sono ex militari dell’esercito libico) ci stringono cor- tesemente, accompagnandoci all’uscita. Il radicale islamico è scomparso. Ma l’intelli­gence americana è in allarme: per quando e­sigua, la cellula qaedista libica conta, secon­do le loro stime, almeno duecento affiliati. Quasi tutti fuoriusciti e al riparo in Afghanistan, in Pakistan, nello Yemen. «Ma ora sembra che siano tornati – dice con voluta prudenza Sha­mir Rezzani, ex funzionario della polizia ur­bana di Bengasi – anche se dubito che possa­no far presa su di noi. Noi siamo islamici mo­derati, al-Qaeda è fatta di fanatici». Vero, ma se ci accontentiamo di ciò che i nostri occhi han­no visto, ne basta uno per mettere in sogge­zione un’intera brigata di giovani shabaab, per irregimentarli e magari piegarli a scopi che non sono soltanto quelli di liberare il Paese dal giogo quarantennale del rais. L’abbiamo buttato là, quel nome, al-Hassiri... Non si può nemmeno raccontarlo, il lampo che per un istante ha attraversato gli occhi di ossidiana dell’uomo incamiciato di nero.