Tenete bene a mente questo nome: Abdel Akim al-Hassiri. Perché da un po’ ha fatto perdere le sue tracce e sta turbando il sonno della Cia e dell’MI6 britannico. I quali sanno bene che quando uno come al Hassiri lascia l’Afghanistan è sicuramente per un buon motivo. Al Hassiri è libico d’origine. Nessuno ce ne parla, nessuno ne sa niente qui a Bengasi. Eppure – sarà una sensazione – ma una traccia, un filo esile che ci porta a lui lo abbiamo trovato in un desolato insediamento militare, appena sfiorato dalla rivolta della Cirenaica. Una volta questa caserma si chiamava “7 Aprile”. A eterna memoria – macabro umorismo libico – di un eccidio di studenti che protestavano contro il regime nel 1977. È qui, alle porte di Bengasi che i “Ligian Thaouria”, ovvero i comitati rivoluzionari – i più ligi guardiani della Jamahiria, in pratica i pasdaran di Gheddafi – deportavano, chiunque fosse sospettato di non amare abbastanza il rais per metterlo nelle mani della polizia segreta, che provvedeva a torturarli e, il più delle volte, a farli sparire. Ora questa caserma è diventata un campo di addestramento per shabaab, i giovani guerrieri della rivoluzione. Visitarlo ha richiesto una procedura complicata e non priva di qualche rischio. Ma ne è valsa la pena, perché abbiamo visto qualcosa che potrebbe convalidare molti sospetti che piovono da tutte le cancellerie occidentali. La convinzione cioè che accanto a quei giovani che ricevono un sommario addestramento militare, quanto basta per usare un’arma e recarsi al fronte, si muova silenziosa ma onnipresente l’ombra di un radicalismo islamico che corrisponde perfettamente all’identikit di al-Qaeda. Il primo a parlare è Najib Alì, 50 anni, tecnico petrolifero, sei figli, due dei quali in procinto di arruolarsi anche loro. «Non sono propriamente un novellino, lo so. Arrivo qui alle 9 del mattino e ci resto fino al tramonto. Ciascuno di noi sceglie un’arma e si occuperà solo di quella. Può essere il kalashnikov o il lanciarazzi, o anche la mitragliatrice pesante. Io ho scelto il lanciarazzi». Giriamo lo sguardo. Una drappello si shabaab è accucciato a terra, un istruttore sta spiegando il funzionamento di una piccola katiusha. «È di fabbricazione coreana – spiega – modello recentissimo, del 2006, molto facile da adoperare, con una gittata che supera i 7 chilometri, ma a volte arriva anche a 9». Nell’occhio un po’ febbrile di questi giovani c’è un misto di ansia e di orgoglio. Come in quelli di Ahmed Kamis, 22 anni, studente. L’università è proprio a un isolato di distanza, ma qui nella caserma 7 Aprile è come aver cambiato mondo. «Ho visto scomparire molti giovani, molti amici. Quando sono arrivati qui i mercenari di Gheddafi avevano solo bastoni e coltelli, poi è arrivata la polizia segreta e l’esercito, e ci sono stati dei morti. La via Nasser (una delle arterie principali di Bengasi, ndr) era piena di sangue». «Abbiamo armi vecchie, Gheddafi non si fidava della Cirenaica e ci lasciava ferraglia degli anni Sessanta – spiega il colonnello Mohammed Shebi – ma qualcuna gliela abbiamo portata via, come questa bellissima contraerea: con questa nessun aereo ha più scampo». Attorno a noi ci sono almeno sei o sette gruppi di giovani che vengono ammaestrati al mestiere delle armi. Nessun occidentale nei dintorni, nessun volto europeo. In compenso l’atmosfera si fa di colpo rarefatta quando arriva un uomo inturbantato di nero, la feritoia de- gli occhi scuri che taglia l’aria, lo sguardo che sembra paralizzare le parole di ciascuno, anche degli istruttori anziani che interrompono il proprio lavoro. L’esperienza ci insegna che quelle fattezze, quel piglio, quel volto dissimulato (che potremmo tranquillamente vedere fra gli estremisti delle brigate Ezzedin al Qassam a Gaza come fra gli Hezbollah nel Sud del Libano, o fra i jihadisti nello Yemen o in Sudan) appartengono sicuramente a un militante radicale islamico. Il suo ruolo nel campo è quello di una sorta di commissario politico, la sua penetrante autorità – silenziosa quanto pervasiva – non è minimamente in discussione. La sua occhiata basta a far sorgere una sorda ostilità nei nostri confronti. Due shabaab (ma forse sono ex militari dell’esercito libico) ci stringono cor- tesemente, accompagnandoci all’uscita. Il radicale islamico è scomparso. Ma l’intelligence americana è in allarme: per quando esigua, la cellula qaedista libica conta, secondo le loro stime, almeno duecento affiliati. Quasi tutti fuoriusciti e al riparo in Afghanistan, in Pakistan, nello Yemen. «Ma ora sembra che siano tornati – dice con voluta prudenza Shamir Rezzani, ex funzionario della polizia urbana di Bengasi – anche se dubito che possano far presa su di noi. Noi siamo islamici moderati, al-Qaeda è fatta di fanatici». Vero, ma se ci accontentiamo di ciò che i nostri occhi hanno visto, ne basta uno per mettere in soggezione un’intera brigata di giovani shabaab, per irregimentarli e magari piegarli a scopi che non sono soltanto quelli di liberare il Paese dal giogo quarantennale del rais. L’abbiamo buttato là, quel nome, al-Hassiri... Non si può nemmeno raccontarlo, il lampo che per un istante ha attraversato gli occhi di ossidiana dell’uomo incamiciato di nero.