L'INCOGNITA. Lo Stato palestinese c’è ma il problema è unirlo
Chi e come potrà governare questa terra di sangue e di discordie, sparigliata in due entità, l’enclave sovrappopolata della Striscia di Gaza da una parte e la Cisgiordania vaiolata da decine di insediamenti israeliani (l’ultimo è stato annunciato poche ore fa come prima retaliation dal governo Netanyahu) dall’altra? E soprattutto, chi davvero ha titolo per rappresentare lo Stato palestinese: il delfino di Arafat Abu Mazen, il premier di Gaza Ismail Haniyeh, il leader in esilio di Hamas Khaled Meshaal? La galassia palestinese, come sappiamo, ha molti volti. In Cisgiordania domina Fatah, il partito di Abu Mazen e prima di Arafat. Partito vecchio, indebolito e abbondantemente corrotto, tanto da aver perduto malamente le elezioni del 2006 a favore di Hamas e molto riluttante a indirne di nuove, e tuttavia responsabile del relativo benessere che si respira a Ramallah e dintorni. Eppure è stato proprio Abu Mazen, messo in mora e umiliato ripetutamente sia da Israele sia dai confratelli di Hamas, ad aver trovato il riscatto internazionale con la mossa vincente del voto al Palazzo di Vetro.
Un risultato poco più che simbolico, ma che ha ridato linfa a un movimento estenuato e per molto tempo fuori dai giochi. Tra breve Abu Mazen andrà in visita a a Gaza. Manca da quando Hamas ha estromesso Fatah impossessandosi della Striscia, e la sua non sarà una visita tranquilla. A Gaza, peraltro, non cade foglia che Hamas non voglia. Non per nulla ieri nella Striscia non si è pubblicamente festeggiato il riconoscimento della Palestina: Haniyeh, l’uomo forte di Gaza e principale referente di Teheran e il suo vice, l’irriducibile Mahmoud Zahar, si ritengono già premiati dall’esito della seconda breve guerra delle scorse settimane, che ha dato visibilità, ruolo e voce al movimento, grazie soprattutto al ruolo di garanzia giocato dall’Egitto di Morsi. Ma se Haniyeh non brinda (non lo farebbe comunque, la sharia impone solo bevande analcoliche nella Striscia), nemmeno Meshaal gioisce: lui risponde direttamente ai sunniti di Doha, a quel Qatar che ha promesso investimenti a pioggia, autostrade, nuove città dentro la Striscia e che senza troppo nascondere la mano trama per cambiare le tessere della scacchiera mediorientale, facendo cadere i regimi siriano e giordano, gli alauiti e gli hashemiti.
Alla sinistra di Hamas si muove tuttavia un arcipelago di sigle salafite, di cui il Jihad Palestinese è la più vistosa e insieme la più pericolosa. Piccole e agguerrite formazioni che non cessano di accusare Hamas «di imborghesimento, di intelligenza con il nemico» e in definitiva di essere un movimento «troppo poco islamico». In comune con Hamas queste frange radicali rifiutano di accettare l’esistenza di Israele, contestano il dialogo perseguito con alterne fortune dall’Anp e non riconoscono l’Olp come rappresentante del popolo palestinese. Allo stato delle cose è difficile immaginare chi e come potrà governare una simile Babele.