Usa. L’isola-cimitero dei poveri accanto a New York
I corpi arrivano in traghetto. A decine, ogni settimana. La media è di quattro al giorno, hanno calcolato i detenuti che li seppelliscono. Questi ultimi sanno prevedere con esattezza quando mettere mano alle pale e scavare una nuova buca. La loro tecnica è precisa: ammucchiano le scatole di compensato con i cadaveri in pile di tre e in file di sei, in modo che una fossa comune da 21 metri per sette contenga esattamente 150 adulti. Di neonati, accatastati diversamente, ce ne stanno anche mille, sotto un tubo di plastica che indica che quel posto è già pieno. Si pensa che in questo modo sull’isola Hart, a una ventina di chilometri in linea d’aria da Times Square a New York, siano già stati sepolti i resti di un milione di persone. Ma l’Amministrazione della Grande Mela non può fornire dati esatti sul più grande cimitero degli Stati Uniti. Non ci sono lapidi, e solo dal 2009 il Comune mantiene un registro di nomi (o numeri, quando non ci sono nomi) e delle posizioni delle tombe. La stessa esistenza del camposanto è circondata dalla segretezza. La maggior parte dei newyorkesi non ne ha mai sentito parlare. Per poter mettere piede sull’isola bisogna chiedere un permesso speciale e prendere un appuntamento per il passaggio in traghetto, lo stesso sul quale viaggiano i defunti, ma non allo stesso tempo. È proibito fare foto o assistere a una sepoltura. L’unico punto d’approdo dell’isola è circondato da filo spinato e da cartelli che intimano minacciosamente di allontanarsi. Anche le famiglie dei deceduti – relativamente poche, perché di solito i senza tetto, i nati morti, i disperati mai identificati che trovano il loro ultimo riposo terreno su Hart Island non hanno nessuno – devono dimostrare un legame di parentela e aspettare mesi o anni per poter dire addio ai loro cari. Il Comune di New York motiva le limitazioni con le condizioni poco igieniche del posto e la presenza di criminali che, ogni giorno, dal martedì al venerdì, fanno due ore di viaggio dal carcere di Rikers Island per scontare fra i morti la loro pena ai lavori forzati. Ma un numero crescente di associazioni chiede che l’isola venga aperta ai parenti dei defunti e che le sepolture siano accompagnate da un piccolo rituale. Elaine Joseph ha dovuto aspettare trent’anni per fare un funerale a sua figlia. La piccola Tomika era nata prematura nel 1978 in un ospedale di New York. La madre era a casa quando complicazioni cardiache hanno reso necessaria un’operazione urgente sulla neonata nel bel mezzo di una bufera di neve che ha paralizzato la città. Quando, oltre 24 ore dopo, la donna è freneticamente riuscita a raggiungere l’ospedale, di sua figlia non c’era traccia. Era morta, le è stato detto, ed era stata portata via per la sepoltura. Solo nel 2012, dopo infinite domande e denunce, Elaine ha potuto vedere, da lontano, il luogo approssimativo della tomba di Tomika a Hart Island, coperta di boscaglia e in mezzo a rovine che raccontano la triste storia dell’isola. Prigione e cimitero militare durante la Guerra Civile del 1860, poi manicomio, quindi ospedale per tubercolotici e infine riformatorio maschile. Elaine ha allora fondato l’Hart Island Project, un gruppo che ha fatto scoprire l’esistenza dell’isola. Lei e decine di altre persone – e molte sono madri che non erano in grado di dare una sepoltura ai loro infanti nati morti e li hanno affidati all’ospedale, senza pensare che avrebbero perso del tutto i cadaveri – chiedono la stessa cosa: «Una piccola lapide, e la possibilità di venire quando vogliamo a portare un fiore».