Lunghe "baguette" di pane fragrante, che ancora profumano di forno, e bottiglie d’acqua, di plastica, volteggiano nell’aria che sembrano fregi dorati nell’azzurro terso dell’orizzonte. Nella terra di nessuno, nel mezzo del confine libico-tunisino, bottiglie e pane volano di qua e di là che pare di osservare un balletto disordinato di birilli colorati lanciati in cielo da improvvisati giocolieri. L’impressione è proprio quella di una battaglia chiassosa, frastornante, quasi fosse un gioco di ragazzi a carnevale.Ma non è così. Tutto è molto più triste e faticoso. Amaro e penoso, che non pare vero di stare di fronte a delle vite di uomini prostrate dalla privazione di cibo e di acqua. Dalla fatica del cammino che li ha spinti ad ammassarsi, premendosi come acciughe, a migliaia e migliaia, contro un cancello di ferro, a stento controllato e trattenuto dalle forze di sicurezza tunisine. Attorno a noi è tutta una confusione umana che trascina coperte con dentro materassi e vestiti, valigie che si spaccano a metà, borsoni tenuti in bilico sulla testa. E tanti corpi avvolti da vecchie coperte di lana sintetica, corpi che camminano come zombie solitari, mentre il panino che tengono in mano cade per terra, tra sporcizia e rifiuti pestilenziali, per poi essere raccolto nuovamente. E poi ancora decine e decine di corpi che stanno sdraiati per terra, dappertutto perché non ce la fanno più. Dormono abbandonati a loro stessi, stesi sull’asfalto, cercando di proteggersi dal sole che è quello del vicino deserto. Mentre i soldati adesso sparano colpi di fucile in aria, manganellano le gambe con i bastoni, per fare sentire la presenza dell’autorità. Per trattenere questo disordine, questa bolgia di umanità stanca. Affamata, che addenta il primo pane riempito di tonno, dopo giornate di pancia vuota; gente che si guarda attorno come farebbe un passero a cui hanno spezzato le ali.È l’umanità che sbuca dal confine della Libia e che sta gonfiando la già grave crisi umanitaria di questi giorni. Dimensioni sconcertanti, se si riflette che in Libia ci lavoravano quasi due milioni di lavoratori stranieri africani e della fascia araba, prima della rivolta anti-Gheddafi del 17 febbraio.Una moltitudine di uomini tra i 20 e i 50 anni, una massa di egiziani, e sfumature di asiatici e africani, sfiniti da quella spossatezza del corpo e della mente che solo la paura di avere perso un turno decisivo nel gioco della vita – con l’esistenza da salvare e poi un lavoro da ritrovare – può provocare. Ma tutto il tramestio che ci sta attorno, quella agitazione di corpi che a guardarsi mette ancor più timore, è superato dalle grida, dai richiami, dalle imprecazioni che fanno ondeggiare ogni cosa. Nell’aria si sente e si vede quello strano tremolare dell’orizzonte che è l’annuncio di una tempesta più grave. È encomiabile quanto stanno facendo i volontari tunisini, la gente semplice, pur di porgere una mano di aiuto verso questa gente. Pane e acqua, ma anche schede telefoniche per permettere di comunicare con le famiglie lontane e farli riconciliare con la vita. L’appello dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) è chiaro e impossibile da non considerare nella sua drammaticità, nella sua dimensione d’emergenza: ogni giorno 15.000 persone abbandonano la Libia verso i Paesi confinanti, appunto la Tunisia per lo più, e l’Egitto. Un varco verso la libertà, quello che porta a Il Cairo, che però è molto più difficile e lontano da raggiungere per come i cannoni delle forze governative e le bandiere della rivolta hanno ridisegnato i "confini", hanno separato le diverse "regioni" della Libia.«I nostri funzionari al confine di Ras Jedir ci informano che la situazione sta raggiungendo il punto di crisi», conferma la portavoce dell’Acnur, Melissa Fleming, per aggiungere che a Ras Jedir, in un solo giorno, ci sono stati 14 mila ingressi, il numero più alto mai toccato. Fino a ieri. La media stimata è quella di 1.000 sfollati ogni ora, che si vanno ad aggiungere agli oltre 70mila circa che già gravano da questa parte del confine e che vivono come se fossero dentro un Grand Bazar della sopravvivenza, mentre si montano le prime, ma ancora insufficienti, tendopoli. E così tutto diventa un mercato arabo dove c’è chi già guarda ai piccoli affari: il venditore di sigarette, il cambiavalute, l’affitta telefonino, l’uomo che prepara il
chai, il tè. Insomma un immenso caravanserraglio umano che si va gonfiando sempre di più mentre le autorità tunisine tentano di sfrondare la massa di sfollati stipandoli sugli autobus di linea o delle agenzie turistiche tunisine. Qui, al confine tra la Tunisia e la Libia di Gheddafi, bombe e spari non si sentono. È strano ma non arrivano i feriti di questa strana guerra con offensive e bombardamenti aerei gridati ai quattro venti. Qui a cadere dal cielo sono solo centinaia di pagnotte appena sfornate e altrettante bottiglie d’acqua. Lanciati su quel muro umano che si schiaccia, e si soffoca senza neppure più lo spazio per un respiro, contro il cancello di ferro del confine, pronto a tracimare. Resta solo un metro davanti a quegli uomini per abbandonare la paura di quella Libia che minaccia vendetta.