A pensarci bene la chiave ce l’avevamo letteralmente sotto il naso. Bastava dar retta ai sensi e considerare quel lezzo leggero di idrocarburi aromatici che esala dalla laguna di Bengasi e di fronte al quale non c’è riparo alcuno. Bastava seguire quel filo sottile e saremmo arrivati – il praesidium del (Cnt) Consiglio Nazionale di Transizione libico non ce ne voglia – al cuore, anzi, al
core business come si chiama in gergo, dell’insurrezione. Che certamente parte dal cuore profondo della nazione, (della Cirenaica senza dubbio, ma certamente il malcontento è di statura nazionale), arma i giovani di esaltata volontà di battersi, mobilita schiere di volontari che vanno a punzecchiare le armate di Gheddafi fermandosi sull’orlo del precipizio in attesa che l’assistenza aerea della coalizione occidentale faccia il suo lavoro, ma altrettanto certamente oltre alla mano sul cuore ne ha anche una sul portafoglio. E la ricchezza della Libia, lo sappiamo, è sostanzialmente una sola, il petrolio. Una qualità solforosa che vanta 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, la più grande economia petrolifera del continente, altro che la scatola di cartone piena di sabbia come pensavano scelleratamente gli italiani all’epoca dell’impero. E non basta: «Il petrolio libico è di qualità «sweet – spiega Ahmed Zaiani, ingenere minerario della Libyan Oil Company, fino a ieri al soldo di Gheddafi ed ora prontamente al servizio del Consiglio di transizione – cioè a basso contenuto di zolfo, il che vuol dire che ha dei costi di raffinazione molto contenuti rispetto al petrolio iracheno o saudita. E quindi dei margini di guadagno molto elevati. E non stiamo parlando solo del petrolio, c’è anche il gas».Partiamo dal petrolio nel raccontare lo strano caso della rivolta libica, perché di tutte le rivolte finora conosciute, questa pare autenticamente senza leader, senza guida, senza un’ossatura che ci faccia intuire un comitato rivoluzionario o qualcosa di simile, con le sue regole, la sua ferocia, il suo integralismo. Ci sono «segnali» della presenza di membri di Al-Qaeda e di Hezbollah nelle fila dei ribelli libici – ha detto ieri l’Alto Comandante della Nato, ammiraglio James Stavridis, alla Commissione per le Forze Armate del Senato Usa – anche se i leader dell’opposizione a Ghedaffi appaiono persone «responsabili».Qui a Bengasi è tutto diverso. La sede del Consiglio è in Piazza del Tribunale, ribattezzata piazza della Rivoluzione, a ridosso del porto e di una serie di vie sonnolente, niente a che vedere con il traffico caotico del Cairo o di Beirut. Ma soprattutto, guardando questo Consiglio non possiamo non notare la teatrale diversità fra gli anziani che lo guidano e gli shabab – i volontari in armi che ogni giorno spingono la rivolta verso ovest lungo l’autostrada. «Perché i vari Abdel Jalil (il presidente del Cnt) – spiega Omar Beddawi, avvocato che si è messo a disposizione del governo provvisorio – sono un pezzo di Libia che da sempre ha fatto la fronda al governo di Tripoli, pur facendone parte come ministri o viceministri». A considerarlo nel suo insieme, il Cnt più che un governo provvisorio sembrerebbe un comitato di quartiere, capace comunque di proclamare ai microfoni di Porta a porta: «Parteciperemo allo sforzo per fermare l’immigrazione clandestina impedendo ai clandestini l’ingresso in Libia e combattendo le organizzazioni criminali che trafficano in questo settore». Per poi aggiungere, e qui torniamo al core-business cirenaico: «La Libia del dopo-Gheddafi rispetterà tutti i trattati firmati con Eni e le altre aziende». Parola di Abdel Jalil, ex ministro della Giustizia di Muhammar Gheddafi. Il quale promette elezioni libere per assicurare una transizione verso la democrazia quando Gheddafi sarà costretto a lasciare il potere.Jalil ha tutto per piacere all’Occidente. Avvocato, aspetto rassicurante, da giovane è stato attaccante della nazionale di calcio libica, non è filo-islamista, ma piuttosto molto vicino alla sensibilità occidentale e si è guadagnato la stima di Amnesty International e Right Watch per il suo dissenso nei confronti del trattamento dei prigionieri politici. Non appena Gheddafi ha cominciato a sparare sugli insorti Jalil ha abbandonato la sua poltrona, guadagnandosi una taglia di 500mila dinari (circa 290mila euro) in quanto «pericolosa spia» e in subordine 200mila dinari di ricompensa per chi invece fornirà informazioni utili alla sua cattura.In realtà Gheddafi sta tentando di venire a patti con lui. Non è un caso che abbia scelto proprio l’ex primo ministro Jadallah Azzouz Talhi per mediare con i ribelli di Bengasi, in quanto cugino di Abdel Jalil e nato sotto lo stesso tetto di famiglia a al-Baydha, in Cirenaica.Ci vorrà tempo prima che la fisionomia del Cnt sia più chiara e molti giorni per capire se avrà un futuro politico oppure l’insurrezione libica resterà un tragico capitolo nella storia del Paese. Quello che è certo è che a scatenare gli appetiti non è stata soltanto la giusta voglia di libertà e di democrazia di un popolo. Ripensiamo alla città-giardino di Ras Lanouf, da cui ieri siamo fuggiti precipitosamente di fronte al contrattacco notturno dei lealisti: un piccolo paradiso costruito a misura dei tecnici del petrolio, una faccia della Libia ignota al resto del Paese. «All’Occidente è quello che interessa», considerano a Bengasi i più disillusi. L’odore lieve dello zolfo che soffia sotto la laguna non è in grado di smentirli.