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INCHIESTA. Libia, la ritirata dei senza patria

Paolo Lambruschi giovedì 7 luglio 2011
Novanta giorni dopo la grande fuga, nei tre campi profughi oltre il confine tra Tunisia e Libia sopravvivono le vittime perdute di una guerra che nessuno racconta. Almeno 700mila tra migranti e libici, secondo Medici senza frontiere, hanno attraversato i confini dall’inizio del conflitto e il flusso continua incessante nelle strutture di transito in Tunisia, Egitto e, verso il sud del Sahara, in Niger. Se molti asiatici e sub-sahariani sono già stati rimpatriati e i libici attendono gli eventi, la sorte peggiore spetta ancora una volta alle migliaia di esseri umani provenienti dal Corno d’Africa. Lavoravano a Tripoli e ora sono senza patria “spiaggiati” e disperati nel deserto. Le loro sono cronache di storie dimenticate. Come quelle del campo di Shousha in Tunisia, allestito dal governo tunisino e dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati a otto chilometri dal confine libico, il più grande e quello nella situazione peggiore. Da qui circa 4.000 persone – somali, eritrei, sudanesi – non possono andarsene a causa dei perduranti pericoli nei Paesi di origine. E sono pronti a morire nel Mediterraneo pur di raggiungere l’Italia. Molti hanno subito violenze in Libia e soffrono di crisi d’ansia e depressione e nell’assistenza quotidiana lamentano carenze. Le tensioni crescono, intanto, e un mese fa il campo è stato messo a ferro e fuoco dai tunisini della città più vicina, Ben Gardane, dopo una rissa costata quattro morti bruciati vivi e due feriti tra eritrei e sudanesi. Alle organizzazioni internazionali che gestiscono Shousha le autorità tunisine hanno chiesto ai primi del mese scorso una veloce evacuazione dei rifugiati perché non garantiscono per la loro sicurezza. La zona vive infatti di contrabbando e i profughi ostacolano i traffici, anche se stanno rianimando gli affari dei passatori.Dall’11 maggio scorso vive a Shousha don Sandro de Pretis, il sacerdote trentino che un anno fa si era trasferito nella diocesi di Tripoli per assistere gli immigrati provenienti dal Corno d’Africa. È l’unico sacerdote cattolico a condividere in questo momento la sorte dei profughi rifiutati da Europa e Usa.«Al momento – spiega don Sandro – la situazione è difficile soprattutto dal punto di vista psicologico. Sono persone destinate a restare qui per mesi e non vedono sbocchi. Ci sono tende per accogliere i bambini e farli giocare, poi poco o nulla, L’Alto commissariato Onu per i rifugiati sta procedendo nell’esame delle diverse situazioni, ma soprattutto i più giovani sono insofferenti. Sono partite finora solo poche decine di rifugiati che hanno parenti in Canada e Usa, ma gli altri Stati non ne vogliono sapere di questi che avrebbero diritto di chiedere asilo. In più è arrivato il grande caldo e qui intorno c’è il deserto». Morale, i giovani tornano a Tripoli. «Molte voci – sottolinea il prete – lo confermano. Preferiscono cercare una barca per tentare di raggiungere l’Italia a rischio anche della vita». All’interno del campo almeno le tensioni sono diminuite. Gli scontri di un mese fa scoppiarono per le molestie di un gruppo di darfurini ad alcune eritree. E il personale dell’Onu in quei frangenti, dicono le testimonianze, fuggì lasciando donne e bambini in balia dei rivoltosi. La soluzione è stata la divisione del campo in base alle nazionalità. Don Sandro è aiutato da tre suore – due spagnole e una coreana – e sta girando l’insediamento per ricostruire storie e offrire conforto spirituale e aiuto concreto a cristiani e musulmani. «Da qui vorrei andarmene quando l’emergenza terminerà».Intanto il gruppo più numeroso, gli eritrei, si è auto organizzato con un comitato. «Stiamo aiutando l’Acnur – spiega Solomon, uno dei leader – a identificare le persone per accelerare i tempi. La situazione è difficile e si sta prolungando troppo. Abbiamo cibo a sufficienza, ma viene consegnata solo una bottiglia d’acqua a tenda. Mancano inoltre il latte per i bambini e il cibo adatto ai neonati. Abbiamo fatto diverse assemblee per comunicare i pericoli della traversata verso l’Italia. La gente sa cosa rischia, sa che i mercenari di Gheddafi li trasformerebbero in “bombe umane” contro l’Ue imbarcandoli su barche sovraffollate, eppure vuole partire».Tripoli dista solo 150 chilometri da Shousha. In città c’è la morte, ma rispetto al nulla del deserto, ai profughi che scrutano l’orizzonte rimane almeno una speranza.