Nuovo colonialismo. Libia ostaggio delle faide. Fondi dall’Ue ma braccia aperte a Mosca
Commemorazione a Mosca, nell'agosto 2023, del defunto capo dei Wagner Prigozhin: il gruppo ora opera come Africa Corps
L’8 maggio Giorgia Meloni era a Tripoli. Poi quasi a sorpresa, in volo per Bengasi, per discutere con il generale Haftar, il signore della guerra in Cirenaica che non vuol saperne di accordarsi per riunificare il Paese. Qualche tempo prima, sia in Cirenaica che in Tripolitania, una serie di sabotaggi contro impianti petroliferi erano suonati come avvertimento all’Italia. “Solo tensioni interne”, si affrettavano a minimizzare alcune fonti governative tripoline. Il giorno dopo gli emissari di Haftar erano già in volo per Mosca.
E’ la Russia a fornire manovalanza armata che ormai tiene in piedi i maggiorenti locali. Si chiama “Africa Corps”, la nuova veste dei mercanari “Wagner”, dopo che la compagnia è stata ufficialmente soppressa in seguito all’eliminazione del suo fondatore Evgenij Prigozhin e di buona parte del vertice che aveva tentato di ribellarsi a Putin.
La Libia del dopo Gheddafi era un sistema di potere scandito dalle faide. Oggi è una matrioska di clan, vendette, patti violati e promesse di altre ritorsioni. Il 16 aprile l’inviato Onu a Tripoli ha gettato la spugna. Il diplomatico senegalese Abdoulaye Bathily prima di sbattere la porta ha inviato al Consiglio di sicurezza Onu una lettera di fuoco. «Nonostante gli sforzi per rispondere alle preoccupazioni e promuovere il dialogo politico in Libia, ci sono resistenze, aspettative irragionevoli e indifferenza da parte delle istituzioni libiche», ha scritto. Le elezioni avrebbero dovuto svolgersi un paio di anni fa, ma il presidente milionario Dbeibah ha sempre trovato il modo per far saltare il tavolo ogni volta prima dell’indizione del voto. Dal 2021 resta al potere (l’inchiesta scattata con l’accusa di avere comprato i voti dei grandi elettori è stata insabbiata) e oggi ha le chiavi per influenzare la politica in Europa con le solide due armi: la minaccia dell’invio di un massiccio numero di migranti, la gestione diretta dei rubinetti di petrolio e gas. «Le posizioni radicate degli attori principali ostacolano significativamente i progressi nel processo politico», scriveva Bathily nella lettera passata sotto silenzio. Tra le accuse vergate dal diplomatico Onu vi è quella rivolta alle «influenze straniere». Tripoli è una preda che nessuno può farsi sfuggire. Ottenerne il controllo significa disporre di straordinarie risorse energetiche a 500 chilometri dalla coste europee (Italia) e al contempo mettere piede in un Paese decisivo per le sorti dell’intera Africa del Nord e fino al Sahel. Nessuno può farselo sfuggire, nessuno spartire il bottino. Fonti diplomatiche italiane confermano che durante la visita dell’8 maggio Giorgia Meloni «ha rimarcato l’importanza di far progredire il processo politico, preservando l’unità delle istituzioni libiche, e di lavorare per porre fine alla presenza di forze straniere sul suolo libico». Messaggio portato anche al generale dell’Esercito nazionale arabo di Libia, Khalifa Haftar. «L’Italia - ribadiscono le stesse fonti - vuole essere presente in tutta la Libia, lavorare con tutti i diversi attori libici, dove tuttavia è significativa la presenza di milizie russe».
Da Mosca rispondono mettendo sul piatto tonnellate di rubli con cui comprare la fedeltà di ex fedelissimi di Tripoli, pronti adesso a saltare il fosso. Si spiegherebbero anche con queste nuove ambizioni gli scontri tra fazioni a Zawyah, dove imperversa il clan al-Nasr, che controlla la “sicurezza” del principale stabilimento petrolifero libico, la gestione diretta della più grande campo di prigionia statale per migranti, e il porto da cui salpano merci di contrabbando, petrolio di frodo, armi ed esseri umani.
Per regolare i conti basta un pretesto. E’ successo mentre Meloni era ancora a Tripoli. Una battaglia ufficialmente scoppiata per vendicare l’uccisione di due giovani libici. «Questi conflitti in corso evidenziano la fragilità della situazione della sicurezza nella regione - ha scritto l’Agenzia Nova, bene informata sulle questioni libiche -, sollevando preoccupazioni per un’ulteriore escalation e per l’impatto sulle comunità locali». I gruppi di Zawyah hanno sempre mantenuto rapporti con gli emissari dei governi italiani. Non sempre relazioni facili e stabili, ma vista la presenza di aziende “Made in Italy” nell’area, i canali non sono mai stati chiusi. A patto di non fare domande su come si gestisce il flusso migratorio. Neanche l’Onu ottiene mai l’autorizzazione al libero accesso nelle strutture detentive della zona, nonostante due dei principali responsabili dei campi di prigionia statali (il comandante “Bija” e suo cugino Osama al-Khuni, direttore delle prigioni) siano sottoposti a sanzioni internazionali e indagati per crimini contro i diritti umani dalla procura di Agrigento.
Pochi giorni prima del viaggio di Meloni, il parlamento italiano aveva votato anche il rifinanziamento del sostegno alle autorità libiche, «allo scopo - spiega il Servizio Studi del Senato - di incrementare la capacità di raccolta informativa in merito alle attività della Guardia costiera libica, al traffico di petrolio dalla Libia e al traffico di esseri umani».
Giusto il tempo di rientrare a Roma, che il 13 maggio sul tavolo del governo italiano arriva una notizia da Bengasi. «Una delegazione presidenziale e governativa libica - si legge - è oggi a Mosca per discutere di cooperazione militare ed economica con la Russia».