Così, alla fine, la tenacia degli oppositori e l’ostinazione di Francia e Inghilterra sono state premiate. Il colonnello Gheddafi non governerà più la Libia. Questo era ciò che innanzitutto volevano i ribelli. E lo hanno ottenuto: vedremo ora se e come sapranno gestire questo risultato, ma questo è evidentemente un altro discorso. Francia e Inghilterra volevano trovare la via attraverso la quale uscire dall’impasse di quel misto di preoccupazione e imbarazzo che aveva rappresentato la principale reazione europea di fronte alle rivoluzioni mediterranee. E ci sono riuscite. Non nei tempi desiderati, di sicuro, ma hanno spazzato via l’immagine di un’Europa la cui unica politica mediterranea consista nel garantirsi i flussi di petrolio e bloccare quelli di migranti. Benché formalmente sotto il controllo della Nato e con un’iniziale partecipazione americana via via ridottasi col tempo, infatti, l’intervento in Libia si è connotato come un intervento principalmente europeo, di una certa Europa, in particolare: quella che con fatica cerca di coniugare le ragioni dell’Unione con il riconoscimento della necessaria persistenza dello Stato-Nazione. Cameron resta il più europeista dei premier britannici. Sarkozy è lo stesso che appena pochi giorni or sono, insieme ad Angela Merkel, chiedeva più Europa nel governo dell’economia. La Francia di Sarkozy si propone di fatto come il perno di due schemi differenti: con gli inglesi per una presenza in politica estera più assertiva, in grado di ricorrere all’uso limitato della forza quando necessario; con i tedeschi per un maggior coordinamento delle politiche economiche e finanziarie dei Paesi della zona euro. La sconfitta di Gheddafi rafforza così la posizione francese in Europa, perché Parigi può investire il successo sui due tavoli su cui contemporaneamente sta giocando: quello politico-strategico di una presenza nel Mediterraneo meno timida, meno condizionata dai veto e dai distinguo dei partner e persino non sempre e soltanto al traino degli Stati Uniti, e quello politico-economico di un’Unione meglio in grado di difendere e stimolare lo sviluppo di una delle maggiori economie del Pianeta. La possibilità di trasformare questo successo francese in un successo europeo dipenderà soprattutto da come agiranno gli altri Paesi dell’Unione, Germania innanzitutto: se considereranno l’intervento in Libia un incidente chiuso o se ne trarranno le conseguenze di una necessaria maggiore assunzione di responsabilità sulla scena internazionale. Ora bisogna concorrere a consolidare la transizione in corso in Libia, cercando di mettere a frutto gli asset che si hanno ed evitando le trappole più pericolose. Tra i primi, il più importante è rappresentato da quel Comitato Nazionale di Transizione che ha tenuto duro in questi mesi fino alla vittoria. Non si tratta di un fronte omogeneo e compatto, ma è quantomeno l’espressione vera di un Paese in rivolta e non l’ennesimo prodotto artificiale realizzato nei laboratori di Langley (il quartier generale della Cia). Potrebbe essere quindi in grado di mantenere l’ordine se forni- to degli incentivi a farlo, di natura economica e politica. Evidentemente, quanto prima Gheddafi sarà costretto all’esilio o catturato, tanto prima le ex opposizioni potranno dedicarsi alla riscrittura di un patto costituzionale di natura confederale tra le sue cento tribù e le sue diverse regioni, il solo che potrebbe tenere insieme il Paese. Tra i rischi, c’è quello di restare impantanati in un’operazione di peacekeeping che nessuno, al momento, dice di volere. Una cosa deve essere chiara: la Nato e i Paesi europei hanno fornito ai ribelli quel supporto militare (che solo essi potevano offrire) necessario per impedire che questi finissero massacrati dalle forze di Gheddafi. Per operazioni di diversa natura, sta al Cnt trovare le risorse necessarie o decidere eventualmente di ricorrere alla solidarietà inter- araba. L’Europa, piuttosto, deve in questa nuova fase dimostrarsi tanto generosa nel sostegno pacifico quanto lo è stata in quello militare. Guai se pensassimo che, caduto il tiranno, la Libia torni ad essere il punto di partenza dei flussi desiderati (gas e petrolio) e di quelli indesiderati (migranti). La fine delle ostilità, tanto più se sarà completa e non seguita da un infinito strascico di vendette, consentirà di riattivare l’economia libica, riportando nel Paese quella manodopera straniera fuggita durante il conflitto, e permetterà la ripresa degli investimenti, l’apertura dei cantieri per la ricostruzione e la realizzazione di nuove infrastrutture: un’occasione da sfruttare nell’interesse di tutti.