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LA SFIDA DEI DIRITTI. Libertà di religione: l’Italia preme all’Onu

Elena Molinari venerdì 28 settembre 2012
​Un docente cattolico che educa maestri in un campo profughi somalo in Kenya. Giovani cristiani e musulmani che cucinano insieme a una mensa dei poveri di New York. Studenti dei licei iracheni che visitano le chiese dei coetanei cristiani in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti.«Dialogo fra le fedi» e «rispetto della libertà religiosa» non sono slogan per chi, come loro, ha imparato a riconoscere l’umanità di un vicino di fede diversa passando attraverso la comprensione della sua religione e la realtà dei suoi bisogni. Spesso, però, il processo è più facile se a guidarlo è non un solo individuo ma un gruppo di cittadini che, muovendosi con le istituzioni, prova a risolvere insieme alcuni problemi della convivenza sociale. Le organizzazioni non governative le chiamano «best practices», o “esempi migliori” del loro lavoro nella società, e ieri li hanno elencati durante il convegno: “La società civile e l’educazione ai diritti umani come strumento di diffusione della tolleranza religiosa”, organizzato al Palazzo di Vetro dalla missione italiana all’Onu insieme ai colleghi della Giordania guidati dal ministro degli Esteri, Nasser Judeh.Il successo di queste iniziative di solito non tarda a coinvolgere i governi, a includere i leader religiosi, e a sollecitare una legislazione più illuminata, stimolando la comprensione di fenomeni complessi. Come ha fatto notare ieri il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi: «Non c’è altra strada che avvicinarsi alla primavera araba in modo costruttivo, comprendendola e creando legami personali con i nuovi leader». L’Italia ha concretizzato questo impegno con una campagna per l’adozione di una nuova risoluzione Onu sulla libertà di religione. «Miriamo a una risoluzione che sia votata da tutti i Paesi membri – ha spiegato il capo della Farnesina – che condanni, senza attenuazioni, ogni forma d’intolleranza religiosa, rafforzando il linguaggio degli ultimi testi approvati, con il contributo fondamentale dell’Italia, dall’Assemblea generale e dal Consiglio dei diritti umani».Tre anni fa, nel pieno della guerra civile e all’apice della crisi umanitaria in Somalia, Deogracious Andreawa Droma, un insegnante ugandese, e un gruppo di altri volontari dell’Ong italiana Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale) vennero invitati ad allestire corsi per insegnanti nel multiforme campo profughi di Dadaab, nell’area nord orientale del Kenya, che ospitava 500mila rifugiati, in maggioranza musulmani. Il compito era enorme, e poteva portare a galla tensioni etniche e religiose. La soluzione dei volontari è stata quella di tornare alla radice dell’educazione. «È raggiungere il cuore della persona – spiega Droma –. Anche in condizioni critiche, di estrema difficoltà, la nostra esperienza dimostra che questo è il punto di partenza». Droma, come cristiano, ha «cercato di comunicare agli insegnanti somali rifugiati che esiste un modo diverso di rapportarsi con la realtà, in cui ogni proposta è vagliata dalla libertà della persona. La religione, la cultura e qualsiasi altro aspetto umano sono allora un mezzo per rispondere insieme alle esigenze più profonde del cuore di ciascuno di noi».In quello stesso anno a Staten Island, un distretto di New York con un’alta densità di famiglie con padri poliziotti o vigili del fuoco, molti genitori cattolici che avevano perso parenti nel crollo delle Torri gemelle non volevano che i loro figli partecipassero alle iniziative della Ong Interfaith Center, perché erano organizzate con centri islamici. «Ma i ragazzi hanno insistito e nel giro di pochi mesi l’intera comunità, adulti compresi, stava lavorando insieme, raccogliendo soldi e cucinando pasti, per risolvere un problema che preoccupa tutti da anni: quello dei senza tetto e della fame a Staten Island», spiega Sarah Sayeed, direttore dell’Ong.Fare leva sui giovani è una strategia nota anche a Jafar Jaward, della Fondazione irachena Al-Hakim, che si propone di andare oltre la semplice tolleranza delle minoranze religiose nel Paese, per promuovere piuttosto la comprensione e il rispetto. «Bisogna partire dai ragazzi – ha spiegato ieri Jaward – e farlo pubblicamente, creando l’orgoglio del dialogo. Ma i giovani hanno bisogno di modelli, e allora organizziamo eventi comuni, come il giorno contro la violenza sulle donne, o il giorno dei diritti umani, e invitiamo leader di comunità religiose diverse, oltre a molti studenti. Se la comunità vede questa cooperazione, allora chi predica l’estremismo sarà rifiutato, e dovrà agire in segreto per nascondere la vergogna sul suo volto».