Il reportage. L'ultima maledizione del Libano. La guerra con Israele bussa alle porte
Gli orfani del Dar Al Aytam Al Islamya chiedono la fine della guerra davanti alla sede della Commissione economica e sociale dell'Onu a Beirut
Mancava solo il rischio guerra totale nella serie delle sciagure che si sono abbattute, negli ultimi anni in una nefasta sequela, sul Paese dei cedri. Dal default finanziario alla pandemia Covid, e dall’esplosione al porto di Beirut allo stallo istituzionale che paralizza da 20 mesi l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica. La “guerra di sostegno” a Hamas che Hezbollah ingaggia dall’8 ottobre contro Israele fa ora temere il peggio. Da un lato si assiste al progressivo sgretolamento dello Stato, dall’altro si aggrava la polarizzazione tra il Partito di Dio e i suoi avversari locali che si traduce in un inasprimento dei toni del dibattito politico. Pochi giorni fa, ha fatto scalpore la ferrea opposizione di una deputata cristiana al versamento di indennizzi statali agli abitanti del Sud «dal momento che la decisione di entrare in guerra non fu presa dallo Stato».
Le bombe al fosforo bianco, che tanti accusano gli israeliani di avere lanciato, hanno intanto reso i terreni agricoli non coltivabili per molti anni a venire in oltre 17 località del Sud. In occasione dello Eid al-Adha e dopo otto mesi, Hassan ha potuto tornare per un paio d'ore nel suo paesino di Meis el-Jabal, scortato dai militari libanesi. Dei mille ulivi che coltivava da decenni è rimasto poco. Aspetterà nuovamente a Tiro, come altri 100mila sfollati della fascia frontaliera, l’esito di un conflitto dalle ramificazioni regionali. Il disappunto è espresso con maggiore cautela dai sunniti. «Siamo assolutamente solidali con i palestinesi – dice un negoziante di Beirut vicino alla Corrente del Futuro di Saad Hariri –, ma non vedo perché il Libano debba portare da solo il fardello militare di tale solidarietà». Nel campo vicino a Hezbollah, che raccoglie sostenitori di tutte le confessioni, la mobilitazione contro «i sionisti interni pronti a pugnalare alla spalle la resistenza» è tangibile. In un albergo di Beirut, un seminario ha riunito educatori e docenti universitari sul tema della resilienza. Tra i relatori venuti dall’estero, due universitari americani che hanno partecipato attivamente al movimento dell’Acampada pro-Gaza.
Uno di loro spiega le regole della negoziazione con i rettori. «Abbiamo affidato la guida della nostra delegazione, dice, a uno studente di fede ebraica per sfatare ogni accusa di antisemitismo». Pierre Rihan insorge quando a cena si sente dare del «sionizzato» da un amico comune. «Reclamare la sovranità dello Stato è forse un’accusa?», osserva. È membro del direttivo di Fighters for Peace, un gruppo di ex miliziani che si erano affrontati con le armi durante la guerra civile. «Dalle periodiche riunioni che organizziamo, spiega, abbiamo imparato a capire le ragioni e le apprensioni gli uni degli altri».
Secondo lui, il lavoro più riuscito riguarda i nuovi cordiali rapporti tra drusi e cristiani che negli anni Ottanta si erano violentemente scontrati sulla montagna libanese. Non gli si può dare torto se si pensa che, il mese scorso, i libanesi hanno visto il leader druso Walid Jumblatt sfilare con una candela in mano al battesimo cattolico-maronita della sua prima nipotina. Tuttavia, il dibattito sul federalismo – o quantomeno su una forma di decentralizzazione amministrativa – occupa largo spazio sulla stampa libanese. Ad Antelias, poco a nord di Beirut, il centro Labora raccoglie tutti i dati relativi alla presenza cristiana nei vari settori. «Dai dati emerge, dice un responsabile del centro guidato da padre Tony Khadra, che i cristiani pagano il 61 per cento del gettito fiscale, ma beneficiano solo del 16 per cento dei progetti statali».
In verità, la decentralizzazione era prevista negli Accordi di Taif adottati alla fine al conflitto civile, con la differenza che i toni attuali – come la ricorrente «loro non ci assomigliano» lanciata ad ogni contesa – denotano un’esasperazione dettata anche da una crisi economica che non fa distinzione alcuna tra i libanesi. A Zouk Mikael, vicino a Jounieh, nessuno dello staff della banca ha pensato a rimuovere il poster con la scritta «la nostra valuta è la lira», appeso all’ingresso. La dollarizzazione dei servizi si è imposta quasi ovunque, anche per evitare di girare con enormi pacchetti di biglietti libanesi senza reale valore.
Come tutte le altre banche dell’ex “Svizzera del Medio Oriente”, la filiale è letteralmente blindata e presidiata da una guardia per scoraggiare gli assalti dei correntisti in collera a causa delle restrizioni imposte ai loro conti. I pochi clienti presenti devono ultimare le pratiche di adesione alla circolare 166 che autorizza i piccoli correntisti a ritirare 400 dollari al mese dal proprio conto. Ogni operazione ha il suo costo, e basta una piccola riga in entrata o uscita per vederti addebitare 80 dollari come «acquisto nuovo libretto». Chi non ha necessità di effettuare transazioni bancarie preferisce tenere i propri averi in casa. Il proprietario di una ditta di casseforti dice di aver triplicato le vendite.
I prezzi partono da un minimo di 450 dollari con il solo antifurto, per raggiungere cifre astronomiche per una tutto incluso. La miseria colpisce chi ha ancora lo stipendio, o parte di esso, in lire. Lo scorso aprile, il governo di Beirut ha introdotto un’assurdità nel glossario degli incentivi offerti ai dipendenti della pubblica amministrazione per mettere fine al loro assenteismo. Si chiama «indennità di perseveranza» ed è assegnata ai dipendenti che si presentano in ufficio più di 20 giorni al mese. L’indennità si aggiunge al rimborso spese di trasporto, calcolato sulla base di 5 dollari per giorno lavorativo.
Lo stesso stipendio di partenza è moltiplicato per nove allorché il dollaro si è moltiplicato dal 2019 per 60. Risultato: il totale complessivo di un salario medio equivale al 26 per cento di quello percepito prima della crisi. È facile, in queste condizioni di vita, immaginare i disagi di chi si trova a dover pagare un’operazione chirurgica oppure la riparazione della sua auto.
A Rihaniyeh, alla periferia di Beirut, incontriamo la scrittrice Marie Kossaifi. Ogni giorno preleva a caso venti libri dalla sua enorme biblioteca e li mette in vendita sui social media a soli 100 dollari. Il ricavato di quello che ormai chiama «Bay-it masa», svendita serale, è destinato a pagare le spese mediche dei tanti malati di cancro privi di supporto finanziario. Quando le capita di ricevere l’importo con la rinuncia alla consegna, destina i libri a studi pediatrici per incoraggiare i bambini a leggere.