La crisi. Libano senza governo da 253 giorni, le macerie della politica
Beirut devastata dall'esposione del 4 agosto 2020
Duecentocinquantatré. Tanti sono i giorni finora trascorsi da quel 22 ottobre, cioè da quando Saad Hariri ha ricevuto l’incarico di formare un nuovo esecutivo in sostituzione di quello guidato da Hassane Diab. Questi aveva rassegnato le dimissioni il 10 agosto, “raggiunto” dall’onda d’urto della tremenda esplosione che aveva distrutto, pochi giorni prima, il porto di Beirut e con esso mezza capitale libanese provocando oltre duecento morti e seimila feriti.
Prima di Hariri, l’incarico di formate un governo “in sintonia e produttivo” era stato affidato all’ambasciatore Mustafa Adib che ha dovuto gettare la spugna nel giro di un mese, assediato dai “desiderata” delle varie fazioni politiche del Paese. Si è così rapidamente arenata nelle sabbie mobili libanesi la cosiddetta “iniziativa francese” lanciata dal presidente Emmanuel Macron nel corso della sua visita a Beirut. Tale iniziativa contemplava la formazione di un “gabinetto di specialisti” ristretto e per la durata di sei mesi, il tempo necessario per introdurre quelle riforme economiche urgenti capaci di convogliare in Libano gli indispensabili aiuti internazionali.
Invece, quei sei mesi sono già trascorsi e altri sei stanno per concludersi e dell’agognato governo manco l’ombra. L’elenco delle proteste e degli ostacoli frapposti dalle diverse forze politiche in questo periodo è lunghissimo. Dapprima sul fatto che il governo dei tecnici sarà guidato da un leader politico a capo di un blocco parlamentare. Poi sulla natura dei futuri ministri indipendenti: se saranno tecnici completamente super partes oppure “suggeriti” dai partiti. Poi ancora sul numero dei ministri: 14, 18 o 24. E infine sul rifiuto di Hariri di consultarsi con i partiti, pur sapendo che la loro fiducia sarà determinante al Parlamento.
Di sicuro, da tempo manca l’alchimia tra il presidente della Repubblica e il premier incaricato. Michel Aoun rimarca che le sue prerogative di presidente non si limitano ad “apporre la sua firma” alla lista dei ministri, ma gli danno il diritto di rigettare i nomi proposti. In particolare, Aoun insiste per avere una voce in capitolo nella scelta dei ministri cristiani. Hariri, dal canto suo, lamenta un trattamento irrispettoso nei suoi confronti e un’indebita ingerenza da parte di Aoun nelle sue prerogative con l’obiettivo appena celato di assicurare un numero di ministri (un terzo più uno) in grado di conferirgli il diritto di veto.
Intanto, il Paese sprofonda sempre di più nel baratro. Sullo sfondo di questo braccio di ferro, apparentemente interno, si profila tuttavia un altro: quello che vede a Vienna i negoziati Usa-Iran. Nei calcoli politici si inseriscono così le considerazioni strategiche regionali, con Teheran che scommette su un prossimo accordo con Washington, anche sul dossier libanese. Molti libanesi temono perciò di vedere il loro Paese finire, come durante la guerra del Golfo del 1990, come un “premio di consolazione” per il tutore di turno.
Conscia del fallimento della sua iniziativa, la Francia ha pensato di rivolgersi all’Europa, ma anche Bruxelles tentenna, agitando – come durante la recente visita a Beirut di Josep Borrell, capo della diplomazia europea – il bastone delle sanzioni contro quei politici libanesi ritenuti corrotti od ostruzionisti nella crisi di governo. Senza mai arrivare a tanto. La preoccupazione dell’Europa sembra essere unicamente quella di evitare che le manifestazioni contro la crisi economica sfocino in un caos tanto generale da spingere i profughi siriani presenti in Libano (circa 1,5 milione) verso le coste europee. Il successore di Pietro diventa l’ultima àncora di salvezza – disinteressata – per il Paese-messaggio.