Due anni di guerra. Ucraina: sibille smentite, guerra-lampo e il peso sull'Europa
Il presidente Putin
Quasi tutte le ipotesi che la stampa internazionale, gli analisti, gli esperti di politica estera e di strategia militare formularono quel fatidico giovedì di febbraio di due anni fa all’alba del quale le forze armate della Federazione Russa violarono i confini dell’Ucraina e diedero inizio all’invasione (un’Operazione militare speciale, secondo il Cremlino) si sono rivelate fallaci e ingannevoli. Il temuto Blitzkrieg dei carri armati di Mosca si era subito arenato alle porte di Kiev, la risposta militare ucraina molto più efficace di quanto i generali russi pensassero, e neppure l’inevitabile caduta di Mariupol sul Mare di Azov – che consegnava a Putin una vasta fetta di territorio saldando le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk alla Crimea già incorporata nel 2014 – costringeva il presidente Zelensky alla resa o a un’umiliante richiesta di armistizio.
L’Ucraina, politicamente e finanziariamente sostenuta dalla Nato e - con molta prudenza - dall’Unione Europea, resisteva. Ma questa è storia di ieri.
A due anni esatti dall’invasione e centinaia di migliaia fra soldati, volontari e civili morti da entrambe le parti, il sentiment collettivo è profondamente mutato. Volodymyr Zelensky stesso non riesce a nasconderlo. Dietro al velo del patriottismo si muove come un’ombra la sfiducia dei suoi generali circa la possibilità di contenere efficacemente l’avanzata russa. E non è solo questione di munizioni, di armamenti, ma di un elementare calcolo che ogni professionista con le stellette sa fare: per ogni colpo sparato dai cannoni ucraini, la Russia ne spara dieci. Il fallimento dell’annunciata controffensiva dello scorso anno, la rotta dell’esercito dopo la caduta di Avdiivka pongono Kiev di fronte a un dilemma che centoventi anni prima si era posto anche Lenin: Cto delat', Che fare?
Anche l’Occidente si pone la stessa domanda, con esiti difformi e talvolta opposti: trasformare l’Europa in una potenza militare in ossequio alla tesi di Emmanuel Macron secondo cui il Vecchio continente necessita di una difesa comune; abbandonare i clienti morosi della Nato al loro destino (tesi vigorosamente agitata da Donald Trump) finché non aggiustino i loro bilanci e paghino pegno come si conviene all’ombrello americano che finora li ha protetti e tenuti fuori dai guai; baloccarsi – come sta accadendo all’interno della Ue – fra i pessimisti che ritengono che neppure con le armi più sofisticate l’Ucraina possa vincere la guerra, e i fautori di un appeasement che prevede concessioni (concessioni?) territoriali a Mosca, ma senza troppo darla vinta a Putin; fino alla silenziosa ma non poi così sparuta minoranza che confida nel ritorno di The Donald, che negando aiuti a Kiev finirebbe per chiudere la partita sollevando l’Europa da incomode spese di mantenimento della guerra. Già, le spese. Anche Joe Biden, che qualche successo lo deve portare sul piatto delle elezioni di novembre, è bloccato sugli aiuti a Zelensky.
E oltretutto è occupato a risolvere il rebus di Gaza, che ha tolto visibilità e appeal al presidente ucraino polarizzando l’attenzione sull’irrisolvibile nodo dei Due Stati. Triste anniversario di guerra, quello di domani. Da entrambe le parti una catasta di morti, di giovani feriti, mutilati, dispersi, fuggiti all’estero (lo fanno entrambi, russi e ucraini) o strappati a forza dalla periferia dell’impero un tempo sovietico per non impensierire l’elettorato moscovita e pietroburghese. Quello che tra breve consegnerà a Putin il suo nuovo mandato presidenziale. La pace, onestamente, ci appare ancora molto lontana.