Sciopero dei migranti. Usa, le separazioni delle famiglie scatenano rabbia e proteste
Le famiglie di mignanti davanti al Senato a Washington (Ansa)
Oltre cinquecento migranti, padri e figli, che mesi fa erano stati separati al confine, hanno deciso di avviare diverse forme di sciopero all’interno dei tre centri di detenzione di Karnes, in Texas. Gli adulti, come forma di protesta per le condizioni ritenute «ingiuste » a cui sono stati costretti, hanno deciso di non obbedire agli ordini, ma soprattutto di cominciare uno sciopero della fame, rifiutandosi di mangiare. I più piccoli invece manifesteranno non partecipando alle attività scolastiche previste dal programma.
Attraverso le proteste, gli attivisti e le famiglie chiedono alle autorità americane di velocizzare le risoluzione legale di ognuno di questi casi di immigrazione, in quanto le vite di queste persone, all’interno dei centri ormai da settimane e mesi, sono ora in un limbo che sta causando dolore e sofferenza. Migliaia di migranti sono sono stati arrestati al confine meridionale degli Stati Uniti a aprite dal mese di aprile, quando l’Amministrazione Trump ha avviato una politica di tolleranza zero nei confronti degli arrivi illegali dal Messico, che comprende l’incriminazione e incarcerazione degli adulti e la separazione dei bambini separati dalle loro famiglie. La divisione dei minori dai genitori è stata interrotta dopo le numerose condanne arrivate da tutto il mondo, comprese le Nazioni Unite, e in seguito alla sentenza di un giudice federale.
Ma il governo repubblicano non è riuscito a rispettare il primo dei numerosi termini (il 26 luglio scorso) stabiliti dal magistrato federale che ha imposto i ricongiungimenti. A rendere pubblici i dettagli dello sciopero è stata l’associazione “The nonprofit Refugee and Immigrant Center for Education and Legal Services”, (Raices) che ha fornito alla stampa informazioni tecniche e molte testimonianze. Ad esempio, quella di Olivio, del Guatemala, fermato al confine e poi trasferito nel centro di detenzione il 13 maggio scorso. A lui, le forze dell’ordine avevano assicurato che sarebbe stato separato dal figlio solo per alcuni giorni; ma purtroppo sono già passati oltre due mesi. «Abbiamo deciso di scioperare – ha raccontato – perché siamo tenuti all’oscuro, non sappiamo nulla. Quindi ora vediamo cosa succede». I gruppi di attivisti e molti tra questi migranti lamentano il fatto di esser stati incarcerati e spinti ad accettare l’espulsione, spesso come condizione per poter riavere i loro figli, senza aver avuto la possibilità di avviare la richiesta di asilo agli Stati Uniti, in violazione del diritto internazionale. E ieri per la prima volta la figlia del presidente Usa, Ivanka Trump, ha espresso la sua contrarietà per la politica di separazione delle famiglie voluta dal padre, definendola «il punto più basso» della presidenza.
La consigliera del capo della Casa Bianca, madre di tre bambini, si è attirata numerose critiche per il suo silenzio sulle scelte del padre in materia migratoria e ha dato ieri l’impressione di voler correggere il tiro, dando una voce umana all’Amministrazione. «È stato il punto più basso anche per me», ha continuato ricordando di essere «figlia di un’immigrata ». Il riferimento è alla madre, Ivana Trump, che emigrò negli Stati Uniti dalla Cecoslovacchia. Ivanka ha però sottolineato che «siamo un Paese di leggi», e chiarito che la madre entrò legalmente nel Paese. Intanto alcuni repubblicani in Congresso hanno cominciato a lavorare a una proposta di riforma dell’immigrazione dai toni più moderati rispetto alla posizione ufficiale della Casa Bianca che porterebbe alla protezione dei giovani immigrati arrivati illegalmente negli Stati Uniti da bambini, i cosiddetti “dreamer”, protezione che Trump ha eliminato.