Un Paese nel caos . L'assalto finale di Trump a Cuba dietro le sanzioni sul Venezuela
Sono trascorsi poco più di trentasette mesi da quel 2 maggio quando la Adonia, della compagnia Carnival, con 704 passeggeri a bordo, si è avvicinata al Castello del Morro per poi raggiungere il molo dell’Avana sotto lo sguardo incredulo di un gruppetto di cubani. Meno di 24 ore prima era partita da Miami per il primo viaggio inaugurale di una nave crociera Usa dopo oltre mezzo secolo di blocco. È stata una delle immagini-icona della politica di disgelo, inaugurata dai presidente Barack Obama e Raúl Castro il 17 dicembre 2014. Ce ne sono state altre: la bandiera a stelle e strisce issata sul Malecón dal vice della Casa Bianca, John Kerry, sul pennone di fronte all’ambasciata Usa, rimasto vuoto per 54 anni.
O la passeggiata di Obama nel centro dell’Avana nello storico viaggio del 20 marzo 2016. Cartoline da un passato prossimo e, al contempo, remoto. L’Amministrazione di Donald Trump è sempre più decisa a rispolverare la “dottrina Eisenhower”, ovvero «utilizzare qualunque mezzo per indebolire l’economia dell’isola e scatenare la rivolta popolare». Poco importa che quest’ultima si sia rivelata inefficiente nello sconfiggere la Revolución che, a gennaio, ha compiuto sessant’anni. La Casa Bianca e il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton sono determinati a smantellare la “normalizzazione obamiana”.
L’ultima marcia indietro riguarda proprio le crociere: da mercoledì sono ufficialmente bandite, come i viaggi culturali ed educativi. La misura ha un duplice effetto: simbolico e pratico. Il turismo internazionale è la terza fonte di valuta per Cuba con 3,3 miliardi di dollari nel 2018. In quell’anno, gli statunitensi sono stati il secondo gruppo nazionale dopo i canadesi, con 340mila visitatori. Da gennaio, ne sono arrivati già 257mila, di cui il 55 per cento in crociera. Il giro di vite di Trump rappresenta, dunque, un duro colpo per l’economia cubana, già traballante per la crisi del suo principale partner commerciale: il Venezuela di Nicolás Maduro. Proprio quest’ultimo sarebbe il reale obiettivo di Trump. O, meglio, il sostegno dei servizi di sicurezza dell’Avana all’alleato. Senza il loro capillare sistema di controllo, per Maduro sarebbe impossibile impedire che il malcontento delle caserme si trasformi in golpe. Washington lo sa. E ha deciso di colpire il “nemico” dove fa più male: il portafogli.
Ad aprile, la Casa Bianca hanno riattivato la legge Helms-Burton che consen- te alle aziende Usa espropriate dalla Rivoluzione di fare causa. La norma mette a rischio gli interessi delle imprese europee e canadesi che usano i beni nazionalizzati decenni fa. Con il fine ultimo di dissuadere le compagnie estere dal fare investimenti nell’isola. Nel medesimo mese, Washington ha annunciato ulteriori restrizioni all’invio di rimesse. L’impatto economico e sociale è visibile. Dalla fine del 2018, a Cuba è ricominciata la penuria di cibo e prodotti per l’igiene personale. Tanto che, due mesi fa, il governo del presidente Miguel Díaz-Canel ha dovuto imporre il razionamento dei generi alimentari. Foto di frigo vuoti, file chilometriche fuori dagli empori, risse durante le estenuanti attese circolano per la Rete con cui i cubani iniziano a familiarizzare.
Lo spettro del “Periódo especial”, il tracollo post fine dell’Urss, è tornato ad agitare i sonni della popolazione. Díaz-Canel tuona contro la politica trumpiana. In realtà, Washington è solo una parte del problema. Il resto è un danno collaterale della crisi venezuelana. In ogni caso, gli economisti – di ogni orientamento ideologico – dubitano che, anche in caso di un eventuale caduta di Maduro, l’isola riprecipiti nell’incubo del “Período especial”. La dipendenza del Venezuela è molto minore rispetto a quella dell’allora Urss: gli scambi con Caracas sono il 44 per cento, quasi la metà rispetto a quelli con Mosca. Da quest’ultima dipendeva un terzo del Pil, le relazioni venezuelane rappresentano il 12 per cento. Mentre la Russia di Vladimir Putin sembra ansiosa di sostituire il rivale statunitense.
Ciò non significa che la crisi non ci sia. Tanto più che il fattore Trump acuisce i problemi. È dubbio, però, che il malessere si traduca in una contro-Revolución. Come sottolinea Rafael Rojas, storico e politologo poco tenero con il castrismo, proprio il caso venezuelano lo dimostra. In questo contesto – i principali analisti continuano a ripeterlo –, le sferzate di Trump rischiano di provocare un duplice fallimento. Come i suoi predecessori hanno imparato, la forza finora non ha prodotto un cambio al vertice dell’Avana. Al contrario, il progressivo arroccamento del governo cubano può rivelarsi controproducenti per i rapporti tra gli Usa e l’America Latina. A cominciare, ancora una volta, dal Venezuela. La mediazione cubana sarebbe, forse, l’unica efficace per risolvere l’impasse dei due presidenti a Caracas. Washington ha le carte, in termini di incentivi, per convincerla ad assumere tale ruolo. Ma ha deciso di giocare un’altra partita.