Vestito alla Mao, sulla copertina dell’Economist. Sorta di replica del grande timoniere, su quella del
Time. «Presidente di tutto», per il primo. Semplicemente il “Presidente”, per il secondo. Ed entrambe le riviste usano lo stesso termine per definire ciò che lo circonda: «culto». Perché il presidente cinese Xi Jinping sarebbe il regista incontrastato di una campagna senza precedenti dalla morte di Mao: una capillare, sistematica, ostinata edificazione del culto della personalità. La sua. Dall’anno della sua ascesa al potere, nel 2012, Xi ha conquistato tutto quello che c’era da conqui-stare: segretario del Pcc, presidente della Repubblica e capo delle forze armate. Non solo: Xi supervisiona le agenzie di sicurezza, pilota il comitato chiamato a promuovere le «riforme globali», dirige la spietata campagna anti-corruzione. Ma soprattutto – sostengono l’Economist e il
Time – sta liquidando l’eredità politica di Deng Xiaoping che aveva introdotto la «leadership di uguali», sorta di antidoto collegiale per impedire che si ripetessero gli eccessi (e gli orrori) dell’epoca di Mao. Xi Jinping è invece un un uomo solo al comando. La cui “deificazione” potrebbe rispondere a una strategia di lungo respiro. Quale? «Prolungare il suo dominio oltre i soliti 10-15 anni», sostiene Willy Lam, in un testo divulgato da
AsiaNews. Questione delicata che «assume ancora più importanza dato che i preparativi per il 19esimo Congresso del Partito previsto per il prossimo anno – che fra i suoi compiti più importanti ha quello di cooptare una nuova, giovane generazione di leader nel Politburo e nella Commissione permanente che lo dirige – inizieranno a breve». Quali sono le leve con cui Xi sta portando avanti la sua “colonizzazione” del potere cinese? Sono due le grandi braccia della politica del «presidente di tutto». La «feroce» campagna anti-corruzione innanzitutto: nel solo 2015, sono stati puniti 336mila funzionari, il numero più alto degli ultimi venti anni. Ma Xi ha “osato” anche mettere le mani dentro quel meccanismo pachidermico che risponde al nome di Pla, l’esercito cinese, annunciando il taglio di 300mila unità. Ma come scrive ancora l’Economist, durissima è stata anche la scure che si è abbattuta sul dissenso. Con centinaia di avvocati per i diritti civili, accademici e attivisti finiti dietro le sbarre: «La repressione più dura dai tempi di Tienanmen». Dunque una corsa senza ostacoli per Xi? In realtà le variabili difficili da controllare non mancano. A partire dall’economia del gigante asiatico che mostra evidenti segnali di affaticamento. Come ha scritto Gwynne Dyer, «la dittatura del Partito comunista si fonda su un contratto tacito con la popolazione»: aumento costante del tenore di vita in cambio della “acquiescenza” politica. Un patto che avrebbe spinto il partito a “drogare” il tasso di crescita del Paese proprio mentre il mondo affondava nella crisi economica nel 2008. «Nei successivi cinque anni, la Cina ha edificato un nuovo grattacielo ogni cinque giorni. Ha costruito più di 30 nuovi aeroporti, metropolitane in 25 città, i tre ponti più lunghi del mondo, più di 10mila chilometri di linee ferroviarie ad alta velocità e 40mila chilometri di autostrade». Ma le torri rimangono sempre più spesso vuote, e le autostrade deserte. Per Xi potrebbe essere la classica «buccia di banana».
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