La polemica. L'America «rivanga» la storia e taglia la testa a Colombo
La statua dellì'esploratore genovese decatipata al Columbus Park di Yonkers a New York (Ansa)
L’ultima statua di Cristoforo Colombo a cadere vittima dei vandali si trova nel quartiere newyorkese di Queens: è stata coperta di graffiti che chiedono di «non onorare il genocidio» e minacciano di «tirarla giù». Pochi giorni fa l’esploratore era stato decapitato nel nord dello Stato di New York. Altre sue statue sono state danneggiate a Baltimora, a Houston e a Buffalo. Da quando un consigliere comunale di New York ha puntato il dito contro il genovese come uno dei «finti eroi» della storia Usa – per aver compiuto lo sterminio dei nativi (secondo una nuova rilettura storica) –, Colombo si trova intrappolato fra sostenitori e oppositori della furia iconoclasta che ha infuocato l’estate statunitense. Difficile, dalle sponde europee, comprendere perché una nazione che ha compiuto da poco i 240 anni possa essere presa dalla smania di demolire il suo scarno passato. Ma la vicenda è seria, e va ben oltre il povero Cristoforo, le cui navigazioni la Farnesina si è affrettata a difendere come patrimonio dell’umanità.
Le sue origini vanno più indietro del 4 agosto scorso, quando la protesta di suprematisti bianchi contro la rimozione di una statua del generale Robert Lee a Charlottesville sfociò in un omicidio. Gli Stati Uniti sono da decenni congelati nel dibattito su cosa ricordare – e co- me – della Guerra civile. Sebbene gli ultimi colpi del conflitto di Secessione si spararono oltre 150 anni fa, basta seguire un talk show o un consiglio municipale sull’argomento per capire che non si tratta di un capitolo chiuso ma di una vicenda aperta e incredibilmente dolorosa. La guerra contrappose la cultura industriale del Nord a quella latifondista del Sud, il governo federale a quelli statali. Gli Stati meridionali volevano difendere il diritto di possedere schiavi. Hanno perso, ma non hanno rinunciato alla loro cultura, riaffermandola ogni volta che la sentivano attaccata. La maggior parte dei monumenti confederati sono infatti sorti alla fine del XIX secolo, quando gli Stati del sud adottarono leggi per privare gli schiavi liberi dei diritti garantiti dal governo federale. La seconda ondata di generali a cavallo e di bandiere confederate è comparsa negli anni ’50 e ’60, mentre i sostenitori dei diritti civili dei neri lottavano contro la segregazione. Nati come atti politici, lo sono rimasti.
Nel 2015, pochi giorni dopo il 150esimo anniversario della Guerra civile, l’uomo bianco che uccise nove parrocchiani in una chiesa afro-americana nella Sud Carolina portava una bandierina confederata. Oggi gli oltre 700 monumenti alla Confederazione sono visti come simboli di un persistente razzismo che l’elezione di Barack Obama ha spinto sottoterra e quella di Donald Trump ha riportato a galla. Il dibattito sulla loro rimozione non è intellettuale ma politico. La controversia non è storica ma di attualità. Non si trova infatti un odio simile nei confronti di altri monumenti che potrebbero sollevare controversie. I volti dei quattro presidenti che dominano Mount Rushmore furono scolpiti in un luogo sacro per i Sioux. Andrew Jackson fu un presidente brutale, ma nessuno ha mai deturpato le sue statue. In realtà la maggior parte degli americani (il 62% stando ai sondaggi, 44% fra gli afroamericani) non vogliono abbattere i memoriali alla loro breve storia, ma desiderano piuttosto erigerne altri. Nel Sud non esistono monumenti dedicati agli eroi neri e alle loro lotte per la sopravvivenza.
Nessuna placca di metallo segna i circa 4.000 edifici, parchi o mercati dove si svolgeva la tratta degli schiavi o dove sono scoppiate ribellioni. Inevitabile fare un parallelo con la Germania, dove i campi di concentramento sono onorati da tutte le forze politiche. Forse l’unico modo per l’America per buttarsi alle spalle il passato allora non è stilare la lista delle statue «buone e cattive », come ha assurdamente proposto il sindaco di New York Bill de Blasio. Ma costruirne di nuove.