Clima e disastri. In Africa alluvioni, frane ed errori fanno strage
Un villaggio allagato sulle rive del fiume Juba in Somalia (Ansa)
«Ho perso mio marito, mia sorella e suo marito. Dovrò quindi prendermi cura dei loro due figli oltre ai miei tre e abbandonare il mio sogno di lavorare in un ristorante della città. Non mi resta che continuare a vendere riso, patate e couscous per strada». Benia Daboh ha 32 anni. È sopravvissuta alla devastante frana del 14 agosto scorso a Regent, una località alla periferia della capitale sierraleonese, Freetown. Benia ha raccontato la sua storia ai microfoni di al-Jazeera dopo essersi spostata nella tendopoli allestita dalle autorità a inizio settembre. Il dramma della Sierra Leone ha proporzioni immani: più di 1.100 i morti, metà dei quali dichiarati tuttora «dispersi», mentre le agenzie umanitarie hanno inoltre registrato circa tremila sfollati e dichiarato che «centinaia di case sono completamente distrutte».
Ma simili situazioni si sono ripetutamente riscontrate, per decenni, in molti altri Paesi dell’Africa subsahariana. Le inondazioni, in un’area di siccità e carestia, continuano a mietere vittime poiché le autorità non si impegnano a prevenirne le terribili conseguenze con alcuni semplici metodi. Gli esperti hanno infatti concluso che il dramma avvenuto in Sierra Leone è attribuibile al «90 per cento all’errore umano» e poteva essere facilmente evitato: «La frana e le alluvioni sono state il risultato di forti piogge, un’intensa espansione urbana e un’erosione del suolo causata dalla deforestazione – afferma infatti Thorsten Kallnischkies, geologo delle Nazioni Unite – . Per evitare questi drammi basterebbe sensibilizzare le comunità insegnando loro come e dove costruire le abitazioni».
Il caso più recente di evento naturale amplificato, negli effetti, dalle “colpe umane” è invece di meno di un mese fa: l’inondazione del 10 maggio che colpito la località di Solai, nel nord-ovest del Kenya, dove il cedimento di una diga ha provocato 45 morti e migliaia di sfollati che hanno perso tutto. «I campi coltivabili non esistono più, il suolo in superficie è stato spazzato via dalle inondazioni ed è affiorata la roccia viva – spiega Laban Yegon, un agricoltore sopravvissuto alle inondazioni. Ci vorranno decenni prima di avere nuovamente un terreno fertile nella mia fattoria». Anche in questo caso l’errore umano ha giocato un ruolo preponderante.
Sebbene stesse piovendo in varie parti del territorio keniano da diversi mesi, il governo si è attivato solo di recente. E, ad oggi, sono «oltre 110 i morti e 300mila gli sfollati». Inoltre, la tragedia di Solai è stata in gran parte provocata da una diga costruita illegalmente, con una struttura che si è dimostrata non in grado di sopportare la quantità d’acqua che l’ha distrutta. E ora la società proprietaria dell’invaso – la Patel coffee estates Ltd. –, è finita sotto inchiesta. «La responsabilità di tale disastro è però anche delle agenzie governative per l’Ambiente, Nema eWarma – denuncia George Kegoro, direttore della Commissione del Kenya per i diritti umani –. Le autorità non hanno agito neanche quando erano state ripetutamente avvertite dei rischi da parte dei cittadini stessi».
In questi giorni, poi, le alluvioni provocate da una eccezionale stagione delle piogge, si sono estese anche alla Somalia e Gibuti dove da inizio maggio «almeno 50 persone sono rimaste uccise, l’80 per cento del bestiame è stato abbattuto o morto per gli effetti delle acque e circa 700 fattorie sono state distrutte». Il ciclone tropicale Sagar ha provocato gravi inondazioni che rendono difficile l’accesso alle zone remote. Alle calamità naturali, soprattutto in queste realtà, si aggiunge la situazione politica e il caos che regna sovrano nel Corno d’Africa: da 30 anni la Somalia è teatro di una guerra civile che non ha permesso alle autorità di adottare anche le più semplici misure per prevenire i danni provocati dai fenomeni naturali.
Dall’altra parte dell’Africa ci sono situazioni simili in Mali e Niger, due vasti Stati poco popolati ma in cui ogni anno i civili rimangono vittime dello straripamento dei fiumi. Anche in una metropoli come Dakar, in Senegal, i cittadini muoiono a causa degli eventi atmosferici e le loro case vengono regolarmente distrutte dalle alluvioni soprattutto nei quartieri più poveri sorti in “aree critiche” come Pikine, una baraccopoli dove «300mila persone sono ad altissimo rischio durante la stagione piovosa».
Proprio a causa di queste situazioni estreme, il fronte umanitario della comunità internazionale è stato costretto a muoversi, spesso sostituendosi al lavoro che dovrebbe essere eseguito autonomamente dai governi locali. «Dal 2007 abbiamo sviluppato il concetto di “Azione preventiva climatica” (Fbf) – recita una nota della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa –. Il fondo creato per velocizzare la prevenzione dei disastri ecologici è già attivo in diversi Paesi africani». Tra questi c’è il Togo, dove, in seguito al progressivo aggravarsi delle inondazioni nell’ultimo decennio, la Croce Rossa locale ha potuto beneficiare dei finanziamenti e delle competenze del fondo Fbf.
«Lavoriamo su più fronti con le comunità di 112 località in tutto il Paese», illustra Romain Lare, coordinatore nazionale del programma: «Nei punti d’acqua abbiamo installato dei pali segnati dai colori verde, giallo e rosso, utili a capire lo stato delle emergenze. Inoltre – continua –, i nostri volontari sensibilizzano regolarmente i cittadini su come e quando abbandonare le zone a rischio di inondazioni. Abbiamo iniziato sei anni fa e durante gli ultimi due anni ci sono stati ottimi risultati». La Croce Rossa togolese ha inoltre distribuito piroghe per trasportare nei luoghi sicuri la popolazione, a cominciare da disabili, bambini e anziani. «Con questo metodo stiamo salvando molte vite ogni anno – conclude Lare –. La sfida ora è passare da un’assistenza dei Paesi stranieri a un maggiore supporto fornito dalle agenzie governative locali».
Anche la Croce Rossa maliana ha recentemente “studiato” il programma Fbf, attivo nella regione costiera del Togo, per riproporlo sul proprio territorio. L’obiettivo è di fornire un «sistema di allerta preventivo» attraverso i cosiddetti «indicatori tradizionali», non scientifici: l’aumento della schiuma nei percorsi fluviali, il fiume che inizia a trasportare tronchi d’albero, gli ippopotami che escono più spesso dall’acqua o molti altri indicatori – che vengono regolarmente aggiornati – che rappresentano dei segnali di possibile emergenza.
Il modello Fbf è stato avviato anche in Uganda, Zambia, e Mozambico, dove stanno aumentando le capacità di prevenzione legate ai disastri ambientali. «Le operazioni sono ora avviate prima di un imminente pericolo – garantisce Pascal Meige, a capo della unità di prevenzione disastri e crisi della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa –. Così salveremo vite e ridurremo la necessità delle costose risposte umanitarie.