Afghanistan. La vita in fuga di Hania, la sopravvissuta
«Sono stanca di avere paura. Puoi scrivere il mio nome». Invece non lo faremo: perché questa ragazza di 27 anni, infagottata in un hijab nero, rischia la vita. L’ex marito le dà la caccia da anni, da quando cioè hanno divorziato. Hania – la chiameremo così anche nel video di Alessandro Galassi inserito in questo articolo – era all’inizio della gravidanza quando l’uomo le ha dato fuoco dopo averla pestata selvaggiamente. La giovane scosta il velo per mostrare le cicatrici scure che le solcano il collo e le spalle.
«Era imbottito di oppio quando l’ha fatto. Mi ha tirato addosso della benzina, ha avvicinato l’accendino ed è scappato. Non è più tornato», sussurra. Madre e piccolo sono incredibilmente sopravvissuti. «All’inizio ero sollevata che mi avesse lasciato. Poi, però, ha scoperto della nascita del bambino. Finalmente aveva un maschio. E ha deciso di portarmelo via». Da allora, Hania deve nascondersi. Ora vive nella stanza di una palazzina che condivide con altre tre famiglie in una provincia afghana. Esce di rado per non essere riconosciuta specie da quando le minacce del marito si sono intensificate.
«Mi ha detto che aveva amici potenti. E me l’avrebbe fatta pagare». Lavorare, dunque, è troppo rischioso e, comunque, non potrebbe farlo: le ustioni le hanno compromesso i muscoli della schiena. «Ma se venisse fuori qualcosa lo farei comunque. Il fatto è che non c’è niente», sottolinea. Con il Paese sull’orlo della bancarotta dopo l’interruzione del flusso di aiuti internazionali in seguito al ritorno dei taleban al potere, Hania sopravvive solo grazie al sostegno di Nove Onlus, da undici anni impegnata in Afghanistan in progetti di sviluppo e sostegno alla popolazione La giovane non ha una famiglia a cui rivolgersi: i genitori sono morti quando era piccola. Cresciuta in un orfanotrofio, appena adolescente è stata presa in carico dallo zio giusto il tempo per farle sposare un uomo con il triplo dei suoi anni, in cambio di 100mila afghani, circa mille dollari.
«È stato un incubo. Poco dopo le nozze, mio marito ha perso l’impiego. Era sempre depresso e ha iniziato a drogarsi. Non ragionava più. Mi picchiava ogni giorno. Mi umiliava, mi tagliava con un coltello, non voglio ricordare tutte le cose orribili che mi faceva», dice con la voce ferma, nonostante l’emozione. «Non permetterò che accada lo stesso a mio figlio», aggiunge mentre il bambino trotterella, indifferente, sull’ampio tappeto azzurro.
«Il dramma della violenza domestica è endemico in Afghanistan già prima dei taleban», afferma Mahbouba Seraj, storica attivista e candidata al Nobel per la Pace. I dati Onu lo confermano: nel 2015, oltre il 50 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni diceva di aver subito abusi dal partner. Al 46 per cento era accaduto negli ultimi 12 mesi. «Ribellarsi è difficile. Quante lo fanno si trovano sole: le famiglie di origine le rifiutano e non sanno come sostenere se stesse e i figli».
Per questo, Mahbouba Seraj ha creato, dal 2003, l’Afghan women’s network, l’unica rete di rifugi ancora operativa in pieno Emirato. Per tenerla in piedi, l’attivista ha deciso di restare a Kabul dopo il cambio di regime nonostante la cittadinanza statunitense. «Non potevo abbandonare queste donne. Non hanno altri. Il resto del sistema di protezione è stato smantellato con il nuovo corso». Se i rifugi di Awsdc sono rimasti aperti è grazie alla determinazione di Mahbouba. «Mi sono seduta di fronte a loro e ho cercato di spiegargli che quanto facevamo era nel pieno rispetto dell’islam. Ho parlato con franchezza. Ho risposto ai loro dubbi, smentito i pregiudizi. Dopo 45 anni di guerra inutile, ho capito che le parole sono le sole armi davvero efficaci. E alla fine, hanno capito. E ora si sono resi conto che siamo utili – conclude -. Quando trovano una donna per strada, in fuga da un marito violento, sanno dove portarla: da noi».