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Ucraina. Il «claun» italiano che sa restituire il sorriso ai bimbi feriti dalla guerra

Giacomo Gambassi, inviato a Kharkiv venerdì 14 aprile 2023

Un clown in Ucraina. Marco Rodari

Sul giubbetto antiproiettile ha fatto scrivere “Clown”. Anzi, più in piccolo, ha fatto scrivere “Claun”, all’italiana, come Marco Rodari preferisce essere chiamato. Anche in Ucraina dove ha trascorso interi mesi dall’inizio dell’aggressione russa. Certo, colpisce che in mezzo alle macerie dei villaggi bombardati del Donbass qualcuno si aggiri presentandosi come un pagliaccio. «Ma parrucca e naso rosso li metto quando incontro i bambini nei rifugi o nelle case ancora abitate», racconta.

Come la ragazzina di una frazione vicino a Kramatorsk, dove i missili piombano quasi ogni giorno, a cui la guerra aveva rubato la parola. «Quando ha visto il clown, ha cominciato a scherzare e ha ripreso addirittura a esprimersi. Il sorriso di quella bimba vale tutta la mia vita», confida il 47enne d’origini lombarde. Una volta uscito dalla casa dove spesso manca l’elettricità, il telefono ha squillato. Da Roma gli annunciavano che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, l’aveva nominato “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica” per «la sua costante attività di volontariato nelle zone di guerra volta a offrire un sorriso ai più piccoli». «E chi mai l’avrebbe immaginato, anche se una delle mie sfide è accendere la fantasia», confida Marco.

Il sorriso ritrovato della bambina che tenacemente resiste con la famiglia nell’oblast di Donetsk è uno dei mille che il clown umanitario ha riacceso in giro per il mondo. E “Il Pimpa”, come Marco si ribattezza quando indossa il costume, compirà trent’anni nel 2024. Tutto comincia nell’oratorio di Leggiuno, in provincia di Varese, dove un adolescente scopre la sua vocazione. «Fra le mura della parrocchia ho intuito come mi fosse congeniale stare accanto ai bambini. E poi mi ripetevano: “Con te i ragazzi stanno buoni”». Un po’ san Filippo Neri, un po’ giullare, sceglie di entrare nelle corsie d’ospedale. E di ricorrere allo storpiato “Claun”.

«Lo devo al mio maestro Margherito che è stato un pioniere dei pagliacci in reparto». Poi nel 2009 la svolta. «Un amico sacerdote che era stato appena nominato alla guida di una parrocchia a Gaza, in Terra Santa, mi ha chiesto di andare nella Striscia per replicare le esperienze d’animazione che portavo in ospedale: con la differenza che lì cadevano le bombe». Resta sei mesi nella Palestina più a rischio. Poi arrivano richieste dall’Iraq e dalla Siria in guerra. E lui dice subito sì.

Lo scorso anno tocca all’Ucraina. «Ogni conflitto rende muti i bambini, alimenta l’odio negli adulti e fa piangere i vecchi – sostiene Marco –. I ragazzi non sorridono più; e spesso non parlano più. Dico che mai un piccolo può abituarsi ai bombardamenti: è solo una giustificazione che noi dell’Occidente possiamo darci. Se capita che un bambino non abbia paura quando cadono i missili, è perché ha un elettrocardiogramma delle emozioni piatto: questo è terribile».

Allora ecco il “miracolo” di una mascherata. «Basta spesso un semplice gioco di prestigio per far scattare l’interruttore della meraviglia. Così, nonostante tutto, il bambino torna a essere bambino». E la cura contagia anche gli adulti. Persino i militari. «È stato curioso vedere i soldati ucraini scortare un pagliaccio che passava fra gli abitati vicino alle linee di combattimento per portare un po’ gioia. La guerra non può essere l’unica ragione del quotidiano. E un volto rasserenato diventa un surplus».

Fra le regioni di Kharkiv e Donetsk “Il Pimpa” ha portato 3mila maglie termiche. E poi i volumi per i ragazzi con la campagna “Un libro per fuggire dalla guerra”. «Mai avevo visto quanto potesse essere così desiderato un libro. Perché, se vive sottoterra dove magari non c’è luce o Internet, una storia su carta tiene comunque compagnia».

L’iniziativa è una di quelle partorite dall’associazione “Far sorridere il cielo” che dal 2005 ha regalato nelle zone dove domina la logica della violenza pasti caldi, presidi sanitari, kit scolastici e soprattutto spettacoli a oltre un milione di piccoli.

«Così possono essere portatori sani di pace – conclude Marco –. Perché la guerra è sempre un fallimento di cui ciascuno è responsabile. Troviamo qualche colpevole, che senz’altro esiste, ma occorre ammettere che ognuno di noi non ha fatto abbastanza per evitarla. Lo ripeto agli alunni delle scuole italiane che visito: mai le armi sono la risposta».