«Più che un anniversario, Sykes-Picot è un monito ». Il giudizio acquista un rilievo particolare quando viene espresso da El Hassan bin Talal di Giordania. L’accordo segreto che ha tracciato, esattamente cent’anni fa, le attuali frontiere del Medio Oriente tradiva, in fondo, le promesse fatte dagli inglesi proprio al suo bisnonno, che dalla Mecca aveva dichiarato la Grande rivolta araba contro gli Ottomani. «Privando gli arabi del loro diritto a uno Stato indipendente unito – aggiunge il principe hascemita – , quell’accordo segnava una prima frattura tra Occidente e mondo arabo, la vittoria della realpolitik sulla idealpolitik, delle considerazioni puramente materiali sugli ideali universali adottati dai fautori della Nahda», la Rinascita araba.
E gli arabi sono rimasti passivi di fronte a un simile cinismo politico?Assolutamente no. L’accordo è stato imposto con la forza dopo la disperata battaglia di Maysalun, che ha aperto ai francesi le porte di Damasco condannando il governo indipendentista arabo all’esilio. Oltre alla ben nota opposizione agli accordi di Thomas Edward Lawrence (il famoso Lawrence d’Arabia,
ndr) ci fu anche quella del presidente americano Woodrow Wilson il quale, nel primo dei suoi “Quattordici punti” in merito all’ordine mondiale successivo alla Grande guerra denunciava ogni sorta di intese internazionali occulte e chiamava a una diplomazia che procedesse sempre francamente e in piena luce. Purtroppo, ancora oggi, qualcuno sostiene che non si possa fare politica con la morale.
Il monito sarebbe quindi contro un eventuale nuovo accordo, Kerry-Lavrov stavolta?Temo di sì. Nella storiografia della spartizione del 1916 si omette spesso il ruolo chiave giocato dall’allora capo della diplomazia della Russia zarista, Sergeij Sazonov. Un ruolo che aveva assicurato a Mosca il controllo degli Stretti e un’ampia zona di influenza in Armenia e nell’Anatolia orientale. Oggi la Russia ritorna sulla scena di un Medio Oriente che non ha mai abbandonato, “scavalcando” i piani della Nato. La scavalca anche con i suoi missili. Mosca si è ormai ritagliata una propria zona d’influenza nel Nord della Siria grazie alle sue basi militari, mentre altre zone della Siria e dell’Iraq so- no in corso di delimitazione tra le altre potenze.
Parla della nuova spartizione come già di un dato di fatto...La mia è una pura constatazione dell’attuale stato di balcanizzazione nella regione che ci ricorda da vicino il periodo di anarchia noto come «i re delle Taifa» in Andalusia. Detto ciò, qualsiasi nuova spartizione del Medio Oriente, anche provvisoria, ripropone comunque un interrogativo fondamentale: la prima spartizione ha forse avuto successo? Esorto perciò le potenze esterne – anche se le mie aspettative non sono alte – affinché gli eventuali nuovi accordi per il Levante garantiscano la stabilità della regione attraverso la complementarietà tra le sue diverse componenti etniche e religiose. Non permettere, cioè, un’estensione dei conflitti all’interno di queste componenti. Sarebbe fatale per il mondo intero. Le grandi potenze non possono permettersi di scendere a questo livello.
La Conferenza di Ginevra sulla Siria procede tra mille ostacoli. Cosa ne pensa?La conclusione che si può trarre dal caso siriano e da altri casi è che, nonostante i rapporti generalmente “nebbiosi” e le controversie tra le grandi potenze, queste ultime sono in grado di isolare e anche di risolvere specifiche questioni internazionali pericolose, in cui hanno interessi comuni. Già nel 2012 avevo insistito con Kofi Annan, ai tempi emissario delle Nazioni Unite e della Lega Araba in Siria, sulla necessità di ottenere dai membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu precise garanzie sulla stabilità del Medio Oriente.
Lei ha partecipato nei giorni scorsi in Vaticano a un colloquio sui valori comuni nella vita sociale e politica. Come nasce il suo interesse al dialogo interreligioso?È una questione di “fitra wa fitna”, ossia di inclinazione naturale e di intuizione. Sono nato in un mondo caratterizzato dalla diversità e dal pluralismo. L’educazione che ho ricevuto dalla mia famiglia e la mia storia personale mi hanno permesso di intessere una rete di amicizie transreligiose lungo una linea che parte dalla Mecca e arriva a Roma passando per Gerusalemme.
Un tassello di questo mosaico mediorientale che le sta a cuore – i cristiani – nutre serie apprensioni circa il suo futuro ed è sempre più tentato dall’esodo...Riconosco che la popolazione cristiana sta diminuendo nell’insieme della regione. E questo è allarmante. Chiedo nuovamente ai cristiani di armarsi, come hanno sempre fatto, di pazienza, elasticità e sensibilità, e di lasciare che l’attuale ondata di fanatismo si esaurisca come si sono esaurite altre ondate in passato. I cristiani sono sempre stati i migliori difensori delle cause arabe, inerpretando al meglio, grazie alla loro apertura alla civiltà occidentale e alla modernità, le aspirazioni di tutti gli arabi. Ritengo tuttavia che i cristiani – sia in Oriente che in Occidente – commettono un grande errore quando esprimono dubbi circa il futuro del cristianesimo nella regione, oppure quando lasciano prevalere la paura.
I cristiani hanno però bisogno di veder tradurre i buoni propositi dei loro concittadini musulmani in azioni concrete...Le iniziative comuni non mancano affatto, non ultima la decisione di re Abdullah II di finanziare il restauro del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Papa Francesco ha detto di recente che dobbiamo ritrovare «il coraggio di sognare». Un esempio della potenza dei sogni è la festività dell’Annunciazione, che da qualche anno viene celebrata in Libano da cristiani e musulmani. Il Libano, nonostante la sua instabilità politica e fragilità economica, dimostra al meglio questa potenza di cui parla il Santo Padre. Probabilmente, anche altri Paesi della nostra regione dovrebbero osare sognare.