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Diritti. A Parigi summit delle iraniane perseguitate

Lucia Capuzzi lunedì 3 marzo 2014
​Che non sia iraniana lo si capisce dalla gonna zingaresca, il fiore tra i lunghissimi capelli neri e i lineamenti inconfondibilmente indigeni. «Sì, sono cilena, di Viña del Mar. Che ci faccio qui? Sono una donna, mi riguarda…», dice Beatriz, 28 anni. A fianco a lei c’è Isabel, parigina di 68 anni e pensionata. Due file più indietro spuntano i biondi capelli di Mariane, tedesca, 35 anni, insegnante. Bathul, invece, è di Teheran: «Ero. Ormai vivo a Roma, con i figli che mi sono rimasti». Gli altri due sono “caduti” nella repressione khomeinista.C’è un eterogeneo microcosmo al femminile nel Dock Eurisites, enorme padiglione alla periferia di Parigi. Qui si sono radunate ragazze, adulte, bambine, di ogni parte di mondo, fede religiosa e orientamento politico, invitate dal Consiglio nazionale di resistenza, il principale movimento di opposizione al regime degli Ayatollah. Sono venute per esprimere sostegno e solidarietà alle iraniane, vittime di un sistema politico che, dal 1979 in poi, ha fatto della discriminazione femminile uno dei propri fondamenti. Ma anche – e forse soprattutto – per difendere il diritto di qualunque individuo di pensare, studiare, credere, esprimere le proprie potenzialità, indipendentemente dal sesso. Ecco perché nella sala affollata di donne si notano anche molti uomini. «La libertà femminile è pure un problema nostro. Una società in cui le donne sono emarginate è una società più povera», afferma Ché, fotografo londinese di vent’anni. «Sono di origine maghrebina e musulmano. E non trovo nella mia religione alcun contrasto con il mio impegno per l’uguaglianza».Martin e Julia, studenti di Informatica in Polonia, annuiscono. «Noi siamo cattolici e spesso abbiamo contatti con i migranti di altre fedi. Il problema non sono mai le religioni ma l’impiego strumentale che gli estremisti ne fanno per giustificare la loro sete di potere». «Una democrazia esclusivamente al maschile è una democrazia mutilata», afferma Jilan, egiziana di 27 anni. C’era anche lei in piazza Tahrir nel febbraio 2011 quando una folla di giovani ha fatto crollare la pluridecennale dittatura di Hosni Mubarak. «Ma è stato solo l’inizio – afferma –. La “Primavera” non è ancora sbocciata. E non potrà farlo fin quando i fondamentalisti continueranno a minacciare i diritti delle donne. Avete visto che cosa è accaduto con Morsi? E non è finita. La nostra è una lotta continua». Una battaglia sfibrante spesso. «Ma non ci arrendiamo», tuona Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale di resistenza e “padrona di casa”. L’opposizione denuncia 120mila attivisti condannati a morte negli ultimi 35 anni. «Pochi sanno, però, che un terzo erano donne, punite per aver sfidato il pugno di ferro degli ayatollah. Eppure l’ideale della parità è vivo nel mondo arabo – sottolinea –. Tante si impegnano per la libertà. Per l’uguaglianza degli esseri umani». Un’uguaglianza esplicitamente negata in Iran, dove senza l’autorizzazione del marito, una donna non può svolgere una professione, contribuire alla scelta della residenza familiare, avere voce in capitolo nell’educazione dei figli. E dove un uomo può divorziare dalla moglie in qualunque momento, senza nemmeno una spiegazione. Perfino nella repressione, le donne sono costrette a un surplus di dolore. Grazie all’espediente del “matrimonio temporaneo”, prima di andare al patibolo, le detenute vengono sistematicamente abusate dalle guardie. Ad altre latitudini, la discriminazione assume forme meno eclatanti. Ma esiste anche in Occidente. Come dimostrano i femminicidi. A ricordarlo esponenti di istituzioni pubbliche e fondazioni private dei cinque Continenti: dalla funzionaria Onu Linda Chávez a Carmen Quintanilla del Consiglio d’Europa all’attivista africana Nontombi Naomi Tutu, figlia di Desmond. Per l’Italia c’era la parlamentare Elisabetta Zamparutti e la presidente della provincia di Cuneo, Gianna Gancia. «Meno male – sorride Ingrid Betancourt, politica colombiana, per oltre sei anni ostaggio della guerriglia –. Forse cominciamo a capire che non ci può essere libertà per nessuno se non c’è libertà per tutti».