La Tunisia si può dire tutta qui rappresentata. Raccolta dentro questo cuore urbano dove speranze e illusioni sono ben tratteggiate dall’ininterrotto scrosciare di umanità che mescola tradizioni e modernità, povertà e benessere, nella centralissima avenue Habib Bourghiba. Ma soprattutto è qui che si concentra il futuro di una nazione, non privo di ombre e insidie, in procinto di costruire la sua Seconda repubblica. Un Paese del Mediterraneo, speciale, che è un po’ arabo e un po’ occidentale, soprattutto molto vicino al Sud dell’Europa, un “ponte” in piena evoluzione democratica, dove la gente non ha più timore di manifestare il proprio pensiero. Ma pure disagio, alla vigilia di un voto, domani, per i 217 seggi dell’Assemblea costituente.Uffici, banche e bei negozi alla moda affollati di giovani che sembrano pronti per una sfilata di pret-a-porter, ristoranti e hotel, luoghi d’incontro e di passeggio, commerci e locali notturni. Vite che si trovano e si perdono su questo ampio rettilineo tra un ministero degli Interni protetto da rotoli di filo spinato, fredde autoblindo e militari in veste antisommossa; fin laggiù, oltre la cattedrale cattolica San Vincenzo da Paola che svetta, in una nazione a totale maggioranza musulmana, che t’invita per un aperitivo prima di andare in moschea, a poca distanza dalla vecchia Medina. Ragnatela di vicoli non raccomandati a un visitatore poco scaltro, regno di lesti borseggiatori.Il colpo d’occhio è offerto dai caffè, numerosi: il Cafè de Paris, il Rossini, il Du Theatre, il Bagdad. Locali dov’è complicato scovare un tavolino libero. Dal mattino alla sera, occupati da chi ci passa il tempo per ore e ore. Abbondano i giovani maschi in cerca di futuro, si rilassano in un ininterrotto chiacchiericcio di speranze che, sigaretta dopo sigaretta, si disperdono in nuvole di fumo e vaghe illusioni: «La rivoluzione ha fatto tante promesse, ma ancora non ci ha consegnato un solo risultato. Il lavoro non c’è». Povertà, ma anche insicurezza, fanno da cornice a nove mesi dalla caduta del regime di Ben Ali. Malgrado le promesse dei partiti politici, la popolazione ha già cominciato da un pezzo a smarrire la fiducia, per domandarsi: «Che strada stiamo imboccando?». La festa per il voto di domani non ravviva le strade della Tunisia.C’è un proliferare di criminalità e di armi, anche a causa della vicina crisi libica e delle turbolenze dei Paesi vicini. E poi è uno sgomitare di gruppi e movimenti che tentano di entrare nel gioco politico imponendo proprie regole e codici. E poi ancora ci sono gli “avvisi”, come quello lanciato dal partito islamista Ennahda, dato come forza emergente, che dice di rifarsi a un islam politico moderato: «Se qualcuno froda il voto, facciamo la rivoluzione». L’élite militare ascolta, osserva, certo non si distrae.Il pensare comune dice questo: finita un’epoca, quella del “padre-padrone” Ben Ali, sembrava che tutto dovesse fiorire subito e alla grande, mentre, invece, dalla strada, si solleva e si accentua il grido della provvisorietà quotidiana, della disoccupazione giovanile. Negli occhi di questi uomini seduti nei caffè di Tunisi, l’onda di sfiducia è grande: rappresentano il 30 per cento del tasso di disoccupazione di una nazione con 11 milioni di persone. Ma è un malessere, quello della disoccupazione, ancora più forte e grave che affligge le lontane periferie tunisine graffiate dal deserto.Come in quella lontana sponda sahariana di Sidi Bouzid, quattro ore d’auto da Tunisi, dove dalla miseria umana tutto ebbe inizio il 17 dicembre del 2010 con l’immolarsi a fuoco di un venditore di ortaggi, Mohamed Bouazizi. Nulla è mutato, solo la piazza del mercato ha ricevuto l’onore di quel nome dell’uomo che si uccise perché gli fu tolto il lavoro. La scintilla per la rivoluzione.Dentro a questo miscuglio di vite fatte di sentimenti che guardano al futuro con gli occhi della speranza o della disillusione, che cercano di crederci nelle fantasiose promesse elettorali, «in pensione a 55 anni, sanità, scuole e trasporti gratuiti», mentre la povertà stracciona, che s’incammina fin qui dai sempre più aridi villaggi e campagne, per allungare la sua magra mano in cerca di un dinaro che perde valore, con il turismo, prima risorsa, in picchiata, certo si faranno sentire le loro voci con tutto il loro peso sull’esito del voto e sull’affluenza alle urne. Sondaggi e previsioni dicono tanto, ma ancora non servono a niente, restano solo degli slogan ideologici, perché nessuno è capace di dirti che cosa accadrà quando: «il 70 per cento dell’elettorato rimane indeciso».Sono sette milioni le persone che hanno il pieno diritto di esprimersi. Eppure solo 3,8 milioni si sono registrate per decidere cosa fare, attraverso un sistema elettorale proporzionale puro, di 110 partiti riconosciuti di cui 81 in lista, 1.300 liste e qualcosa come undicimila canditati che ambiscono a una “x” di consenso per 217 posti nell’Assemblea che avrà il compito di scrivere una nuova Costituzione.Trovarsi a Tunisi è come stare dentro a due polmoni che regolandosi nel ritmico movimento di espansione e di rilassamento, fanno funzionare un delicato sistema “circolatorio”, intanto che le stridenti personalità si riflettono tra loro come minigonne, tacchi a spillo, veli, chador e jeans attillati, che passeggiano a braccetto in avenue Bourghiba.Anche così, dentro a questa immagine, si è sempre regolata la vita del popolo tunisino, almeno fino alla vigilia di questo test elettorale. E fino alle prime proteste islamiche, come quella di un movimento salafita che chiedendo l’imposizione della shiaria, si scagliava contro una tv rea di aver programmato un film irriverente.Oggi, quel corpo tunisino che si è sempre sentito “omogeneo” ai tempi della dittatura, alla vigilia della consultazione elettorale per la Costituente, sotto le sollecitazioni, e la confusione, di un mare magnum di partiti politici e candidature, e pur sempre in un clima di incertezza, sottolineato dalla conferma che lo stato d’emergenza resta valido, va via via rendendosi conto delle sue molteplici identità. Etniche e politiche, laiche e religiose.«Il prezzo giusto è quello che soddisfa chi compra e lascia contento chi vende», dice un detto arabo. La confusione rimane, in questo bazar politico di merce ce n’è anche troppa. È la ricetta che ancora è da inventare. Tanto che a poche ore dal voto sono in tanti a non sapersi decidere su che cosa andare ad acquistare. La Tunisia è un “laboratoire à ciel ouvert”, dice un amico tunisino, ricordando che la strada è lunga anche dopo la data del 23 ottobre: «Dopo l’indipendenza, con Bourghiba, ci vollero tre anni per realizzare la Carta costituzionale».