Reportage. Visita alla centrale di Zaporizhzhia, dove russi e ucraini lavorano insieme
La centrale nucleare di Zaporizhzhia
Un controllo estenuante dei permessi, telefonate tra i vari uffici, fotocopie di documenti. Entrare nella centrale nucleare di Zaporizhzhia è un’impresa non facile, specialmente in un periodo in cui le truppe ucraine stanno avanzando, seppur lentamente, su diversi fronti.
Già dal trasferimento verso il sito è chiaro che dopo l’inizio della controffensiva le misure di difesa e di sicurezza sono aumentate: la strada che da Ernohodar raggiunge la centrale è presidiata da blindati e da posti di blocco, e i venti minuti che in condizioni normali si trascorrono in auto per arrivare ai cancelli della centrale si dilatano di tre volte.
La visita nell’impianto, però, avviene in un clima apparentemente disteso: l’ufficiale militare russo che ci accompagna per qualche metro prima di consegnarci ai tecnici della Rosatom, ammette che il momento è critico, ma le sue parole sono parche e diplomatiche. Nessun accenno d’odio verso i nemici ucraini, anzi ci avverte che non sarà possibile fare domande «sensibili», che tradotto significa nessun accenno alla situazione del fronte o a quella interna. Sarà l’unico militare con cui sarà possibile scambiare due chiacchiere. Gli altri li vedremo accompagnarci nella visita, ma sempre in disparte.
Dopo che Kyrylo Budanov, capo dell’Intelligence militare ucraina, ha fatto sapere che i russi sarebbero pronti a far saltare l’impianto nucleare più grande d’Europa, il mondo è di nuovo piombato in una sorta di sgomento. Il tecnico della Rosatom che ci accompagna nella visita afferma che non c’è nulla di vero nelle dichiarazioni di Budanov e dei dirigenti ucraini: Mosca controlla la centrale di Zaporizhzhia e non ha intenzione di abbandonarla né tantomeno di creare un disastro nucleare. Sarebbe un atto senza senso che andrebbe a rivoltarsi contro lo stesso popolo russo, visto che le radiazioni, trasportate dai venti, si potrebbero spargere anche sopra la madrepatria.
I reattori, aggiunge, sono di fabbricazione russa e sarebbe un suicidio economico oltre che di facciata, creare un incidente alle strutture costruite dalla stessa Rosatom. Anche i (pochi) lavoratori ucraini con cui possiamo parlare, del resto, non credono ad un tentativo di sabotaggio e comunque all’interno del perimetro non vi sono segnali in tal senso: nessun cenno di evacuazione né da parte dei militari, né da parte del personale civile russo. Anzi, lungo i perimetri delle installazioni non vi sono tracce di mine e proprio ieri è stata ripristinata la seconda linea elettrica di appoggio che va ad aggiungersi all’unica che era rimasta.
Il personale, sia russo che ucraino, continua a lavorare sopportandosi a vicenda. Due popoli in guerra tra loro obbligati proprio dalla guerra a convivere e lavorare assieme facendo buon viso a cattivo gioco. Sono i paradossi di questo assurdo conflitto. Alcuni ucraini, i più nazionalisti, quando in centrale hanno iniziato ad arrivare i tecnici della Rosatom, hanno deciso di non collaborare e si sono licenziati. Altri hanno tollerato, dicono, per amore del proprio popolo («non volevamo lasciare che una centrale ucraina cadesse interamente in mano russa») e delle proprie famiglie. La divisione la si vede soprattutto in mensa, con russi e ucraini che mangiano rigorosamente separati. Ma anche nei simboli religiosi: una delle nostre guide ucraine ha una catenella da cui penzola una croce della Chiesa ortodossa di Kiev, staccatasi da quella di Mosca nel 2018.
Zaporizhzhia sembra un’isola di relativa pace nell’inferno della guerra: l’acredine resta, ma non affiora per paura, per senso di responsabilità. I segni dei colpi di artiglieria o dei missili caduti attorno ed entro la centrale sono ancora visibili quasi a voler ricordare (di questo ne sono sicuri i lavoratori ucraini) che la sicurezza della stessa si mantiene su un fragile equilibrio e ogni segno di insubordinazione verrà punito.
A rendere più melodrammatico lo scenario in questa zona così delicata dell’Ucraina, arriva la voce di Dimitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, che torna a parlare di «un’apocalisse nucleare non solo possibile, ma anche abbastanza probabile». Alle sue dichiarazioni hanno fatto eco quelle dell’ammiraglio Rob Bauer, presidente del Comitato militare della Nato secondo cui, grazie alle fonti di intelligence disseminate al fronte l’Occidente «sarà in grado di vedere cosa sta per accadere a Zaporizhzhia e reagire in tempo utile».