La liturgia è stata rispettata in pieno. Bandiere rosse, inno nazionale, applausi sempre ben dosati, l’apparizione del grande vecchio Jiang Zemin, 86 anni, leader massimo fino al 2002, quasi a imprimere all’evento – il 18esimo Congresso del Partito comunista, incaricato di disegnare il nuovo volto del potere in Cina – lo stigma intoccabile della continuità. La scena del primo giorno dei “lavori” è stata tutta per Hu Jintao, il presidente uscente, l’uomo che ha elevato la Cina ai “fasti” del successo economico, facendone un gigante temuto (dagli Stati Uniti e dai suoi alleati in primis). Ed è toccato a Hu stilare i “dogmi” ai quali resterà ancorata la politica del Dragone per il prossimo decennio. Nessuna concessione all’Occidente e ai suoi modelli politici («Non li copieremo»). Lotta dura al cancro della corruzione che rischia di insidiare la sopravvivenza stessa del Partito («Se falliamo nel gestire tale problema in maniera adeguata, la corruzione potrebbe dimostrarsi fatale, e causare un collasso del Partito e dello Stato»). Lo sviluppo economico, che resta il perno sul quale cui regge l’intero sistema Cina («Entro il 2020 dobbiamo raddoppiare il Pil raggiunto nel 2010 e il Pil pro capite tanto per i residenti urbani che per quelli rurali»). E ancora la strada della forza militare: dobbiamo «diventare una potenza marittima», ha indicato il leader cinese durante il suo discorso, un passaggio che agli osservatori internazionali è apparso come un chiaro monito ai Paesi confinanti a cui la Cina si oppone per una serie di dispute territoriali.Nessuna apertura dunque nel discorso lungo due ore. Chi sperava che Hu – che a marzo lascerà il posto nella stanza dei bottoni a Xi Jinping – aprisse il Paese a una ventata di “moderato” cambiamento è rimasto deluso. La Cina non intende avviare riforme politiche secondo «il modello occidentale». Nessuna deviazione dalla «modernizzazione socialista». Il partito, ha ribadito Hu, «darà ampio gioco alla forza del sistema politico socialista» e imparerà dai successi politici e culturali di altre nazioni, ma «non copierà mai il modello dei sistemi politici occidentali». Sul fronte sociale, il presidente non si discostato dalla retorica ufficiale e imperante: «Dobbiamo puntare più in alto e lavorare più duramente per continuare a perseguire lo sviluppo in maniera scientifica, promuovendo l’armonia sociale e migliorando la vita della gente». Questo sul palco “pubblico”. La palla passa ora al dietro le quinte. Se la successione alle due principali cariche cinesi è stata già regolata – a Xi Jinping si affiancherà Li Keqiang nel ruolo di primo ministro –, il Congresso dovrà invece chiarire gli equilibri di potere fra le fazioni. Decisiva sarà la scelta dei membri del Comitato permanente del Politburo, vero centro del potere politico cinese, dove per limiti di età potranno essere riconfermati soltanto Xi Jinping e Li Kequiang. Attualmente il Comitato permanente conta nove membri, ma potrebbero essere ridotti a sette. Altro centro di potere è la Commissione militare centrale, dove Hu Jintao potrebbe conservare la presidenza. Come è tradizione in Cina, l’ex leader continuerà a mantenere la sua influenza dietro le quinte, appoggiandosi sugli uomini della sua fazione “tuanpai”, tutti ex della Lega Giovanile comunista di cui è stato capo. Ma il 69enne Hu dovrà vedersela con il suo predecessore, l’86enne Jiang Zemin ancora molto influente con la sua «banda di Shanghai». Costretto a confrontarsi con due predecessori, Xi Jinping avrà tuttavia un vantaggio rispetto a Hu e Jiang: può contare sull’ampia rete di relazioni derivante dal suo essere un “principe rosso”, figlio di un ex dirigente del partito.