In Ruanda, domenica, inizia la settimana di lutto nazionale. Il Paese si ferma. Le attività produttive ed economiche, negozi, uffici, scuole, ministeri e banche, garantiranno metà servizio. Anche il lavoro nelle campagne si fermerà. Tutta l’attenzione sarà occupata dal
kwibuka, parola che in lingua kinyarwanda, significa “ricordare”: ricordare quei terribili cento giorni del 1994. Il ventennale di questa tremenda ricorrenza del genocidio è speciale: la testimonianza storica di quel massacro, oggi, deve trasmettersi a quel 50 per cento di popolazione ruandese, 11 milioni di abitanti circa, che all’epoca degli avvenimenti forse aveva cinque anni di età. Se con la memoria della storia si fa un salto nel passato, fino a ritornare a quell’Africa che si liberava dal colonialismo europeo, un periodo di pace così lungo non c’è mai stato nella vita di questo piccolo cuore geografico del Continente nero chiamato Ruanda. «Sono già vent’anni dal genocidio contro i tutsi del 1994, e 16 anni dalla fine dell’insurrezione delle ex Far (ciò che restava dell’esercito del presidente hutu Habyarimana,
ndr ). Questo sta a significare che dal 1998 siamo in pace – evidenzia con soddisfazione Christopher Kayumba, docente di giornalismo associato all’Università del Ruanda di Kigali –. Qualcosa che vent’anni fa in pochissimi avrebbero immaginato potesse accadere». Il Ruanda oggi, da molte parti, e da diversi organismi internazionali, a cominciare dalla Banca mondiale, è visto come «la migliore realtà socioeconomica esistente in Africa». Soprattutto in questa regione dove conflitti e tensioni sociali affliggono i Paesi confinanti: Burundi, Congo, Kenya, Uganda. Una nazione, dunque, che ha fatto notevoli passi avanti, nonostante il suo passato recente. Nella lotta alla povertà: il 37 per cento della popolazione, 2,8 milioni di persone, vive in stato di indigenza non grave, mentre un milione sono le persone sotto la soglia di povertà assoluta.Il Paese ha saputo garantire l’istruzione di base obbligatoria a tutti. E promuovere un sistema sanitario nazionale senza precedenti per gli standard esistenti nel Continente africano: nel 2000, c’era un dottore ogni 75.000 persone, oggi si è scesi a 17.200. Al 98 per cento delle donne che devono partorire viene garantita l’assistenza prenatale. Mentre il 90 per cento dei bambini ricevono le vaccinazioni.La liberalizzazione economica e bancaria e la conseguente stabilità sociale garantiscono un Prodotto interno lordo che viaggia attorno all’8 per cento. Anche se pure in queste latitudini si sentono gli effetti della crisi internazionale.Il Ruanda è diventato una delle nazioni tra le più pulite d’Africa. Dove violenza e criminalità viaggiano su percentuali bassissime: sicurezza significa poter fare jogging di sera per le strade del centro. Del Ruanda si credeva anche che dopo una terribile esplosione di violenza primitiva, un così devastante trauma come il genocidio che ha segnato la vita stessa di ogni suo cittadino, vittima e carnefice, la vita nel Paese non sarebbe stata più quella di una nazione normale. Anzi, c’era chi giurava che il Ruanda non si sarebbe mai ripreso dal trauma, ma che sarebbe crollato come un sacco vuoto, com’è stato per la Somalia o la Liberia. E invece. «Invece è successa una cosa inimmaginabile. Una società che esprime violenza, normalmente non fa che rinnovarsi nella violenza – aggiunge il professor Kayumba –. Questo da noi non è avvenuto. E un segno positivo c’è stato: le ferite guariscono e la violenza è alle nostre spalle. Un genocidio non è un crimine normale, è qualcosa di più devastante. Distrugge le relazioni umane. Cancella i fondamenti di una società. La sua cultura, la sua economica e la sua politica. Ma nonostante quanto accaduto, non c’è stato il richiamo della vendetta, ma il suono della riconciliazione che per la prima volta, in tanti anni, fa vivere in pace hutu e tutsi. Certo, c’è anche un altro Ruanda, specialmente se parliamo di diritti umani, di libertà di informazione, di potere politico e diritti civili. Ma, oggi, la grande sfida che sta di fronte al Ruanda è promuovere una identità nazionale». Oggi la parola d’ordine è questa: «
Gutera imbere», andare avanti. Dai giorni bui della guerra, il Ruanda è un Paese che si è saputo rinnovare completamente. Le strade, i quartieri, le case nelle campagne senza più tetti di lamiera, ma tegole rosse, e le nuove aree di edilizia residenziale che attorno alla capitale stanno formando la classe media, stanno li a dimostrare uno sviluppo in costante progressione. Seppure l’economia è principalmente basata per il 90 per cento sull’agricoltura, il tè e il caffè, le principali risorse, mentre il 50 per cento del budget nazionale è sostenuto dagli aiuti internazionali, soprattutto dalla Cina, l’immagine nuova del Paese sono i palazzi che hanno rimodellato il centro città. Ma c’è un sogno che aleggia su Kigali e nelle menti dei suoi amministratori e politici: fare del Ruanda il cuore dell’Africa centrale. Una nuova capitale regionale che diventi il fulcro per gli organismi internazionali che operano in Africa.