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Reportage. Ruanda, la lunga pace dopo l’odio

Claudio Monici venerdì 4 aprile 2014
In Ruanda, domenica, inizia la settimana di lutto nazionale. Il Paese si ferma. Le attività produttive ed economiche, negozi, uffici, scuole, ministeri e banche, garantiranno metà servizio. Anche il lavoro nelle campagne si fer­merà. Tutta l’attenzione sarà occupata dal  kwi­buka, parola che in lingua kinyarwanda, signi­fica “ricordare”: ricordare quei terribili cento giorni del 1994. Il ventennale di questa tremen­da ricorrenza del genocidio è speciale: la te­stimonianza storica di quel massacro, oggi, de­ve trasmettersi a quel 50 per cento di popola­zione ruandese, 11 milioni di abitanti circa, che all’epoca degli avvenimenti forse aveva cinque anni di età. Se con la memoria della storia si fa un salto nel passato, fino a ritornare a quell’Africa che si li­berava dal colonialismo europeo, un periodo di pace così lungo non c’è mai stato nella vita di questo piccolo cuore geografico del Continen­te nero chiamato Ruanda. «Sono già vent’anni dal genocidio contro i tutsi del 1994, e 16 anni dalla fine dell’insurrezione delle ex Far (ciò che restava dell’esercito del presidente hutu Habya­rimana, ndr ). Questo sta a significare che dal 1998 siamo in pace – evidenzia con soddisfa­zione Christopher Kayumba, docente di gior­nalismo associato all’Università del Ruanda di Kigali –. Qualcosa che vent’anni fa in pochissi­mi avrebbero immaginato potesse accadere». Il Ruanda oggi, da molte parti, e da diversi orga­nismi internazionali, a cominciare dalla Banca mondiale, è visto come «la migliore realtà socio­economica esistente in Africa». Soprattutto in questa regione dove conflitti e tensioni sociali af­fliggono i Paesi confinanti: Burundi, Congo, Kenya, Uganda. Una nazione, dunque, che ha fatto notevoli passi avanti, nonostante il suo passato recente. Nella lotta alla povertà: il 37 per cento della popolazione, 2,8 milioni di persone, vive in stato di indigenza non grave, mentre un milione sono le persone sotto la soglia di po­vertà assoluta.Il Paese ha saputo garantire l’istruzione di base obbligatoria a tutti. E promuovere un sistema sanitario nazionale senza precedenti per gli stan­dard esistenti nel Continente africano: nel 2000, c’era un dottore ogni 75.000 persone, oggi si è scesi a 17.200. Al 98 per cento delle donne che devono partorire viene garantita l’assistenza pre­natale. Mentre il 90 per cento dei bambini rice­vono le vaccinazioni.La liberalizzazione economica e bancaria e la conseguente stabilità sociale garantiscono un Prodotto interno lordo che viaggia attorno all’8 per cento. Anche se pure in queste latitudini si sentono gli effetti della crisi internazionale.Il Ruanda è diventato una delle nazioni tra le più pulite d’Africa. Dove violenza e criminalità viag­giano su percentuali bassissime: sicurezza si­gnifica poter fare jogging di sera per le strade del centro.  Del Ruanda si credeva anche che dopo una ter­ribile esplosione di violenza primitiva, un così devastante trauma come il genocidio che ha se­gnato la vita stessa di ogni suo cittadino, vittima e carnefice, la vita nel Paese non sarebbe stata più quella di una nazione normale. Anzi, c’era chi giurava che il Ruanda non si sarebbe mai ri­preso dal trauma, ma che sarebbe crollato co­me un sacco vuoto, com’è stato per la Somalia o la Liberia. E invece. «Invece è successa una cosa inimmaginabile. U­na società che esprime violenza, normalmente non fa che rinnovarsi nella violenza – aggiunge il professor Kayumba –. Questo da noi non è av­venuto. E un segno positivo c’è stato: le ferite guariscono e la violenza è alle nostre spalle. Un genocidio non è un crimine normale, è qualco­sa di più devastante. Distrugge le relazioni u­mane. Cancella i fondamenti di una società. La sua cultura, la sua economica e la sua politica. Ma nonostante quanto accaduto, non c’è stato il richiamo della vendetta, ma il suono della ri­conciliazione che per la prima volta, in tanti an­ni, fa vivere in pace hutu e tutsi. Certo, c’è anche un altro Ruanda, specialmente se parliamo di diritti umani, di libertà di informazione, di po­tere politico e diritti civili. Ma, oggi, la grande sfi­da che sta di fronte al Ruanda è promuovere u­na identità nazionale». Oggi la parola d’ordine è questa: «Gutera imbere», andare avanti. Dai giorni bui della guerra, il Ruanda è un Pae­se che si è saputo rinnovare completamente. Le strade, i quartieri, le case nelle campagne sen­za più tetti di lamiera, ma tegole rosse, e le nuove aree di edilizia residenziale che attor­no alla capitale stanno formando la classe me­dia, stanno li a dimostrare uno sviluppo in co­stante progressione. Seppure l’economia è principalmente basata per il 90 per cento sull’agricoltura, il tè e il caffè, le principali risorse, mentre il 50 per cento del budget nazionale è sostenuto dagli aiuti inter­nazionali, soprattutto dalla Cina, l’immagine nuova del Paese sono i palazzi che hanno rimo­dellato il centro città. Ma c’è un sogno che aleg­gia su Kigali e nelle menti dei suoi amministra­tori e politici: fare del Ruanda il cuore dell’Afri­ca centrale. Una nuova capitale regionale che diventi il fulcro per gli organismi internaziona­li che operano in Africa.