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Afghanistan. La luce nel «buio» nella scuola dei piccoli mendicanti

Lucia Capuzzi, inviata a Kabul domenica 4 settembre 2022

Mohammed Arif disegna un’asta verticale con il pennarello. «Alef», dice e i bambini ripetono all’unisono: «Alef». È la prima lettera dell’alfabeto “dari”, lingua ufficiale dell’Afghanistan, molto simile al persiano parlato nel vicino Iran. I corsi sono cominciati da poco e l’insegnante vuole essere certo che abbiano compreso i fondamenti prima di andare avanti. Sul tappeto, trentacinque allievi dai 9 ai 14 anni cercano di riprodurre il segno sul quaderno. Lo tengono con soggezione, quasi avessero paura di imbrattarlo. È nuovo, come il resto del materiale: sussidiario, matita, gomma e temperino, dono della scuola. Sono oggetti preziosi per i ragazzini di Sharak e-Police, campo informale nel quartiere Tamanì di Kabul.

Là abitano, da oltre un decennio, novecento famiglie in fuga da un conflitto che va avanti da più di quarant’anni. Negli ultimi venti, le forze della Repubblica e gli alleati occidentali hanno combattuto contro i ribelli taleban. Dai fronti caldi – Sud ed Est, in particolare – milioni di donne, uomini e bambini, al ritmo di 370mila l’anno, hanno cercato salvezza nei centri urbani meno esposti. Primo fra tutti, Kabul, dove si contano una settantina di insediamenti di emergenza. Sterrati dove i profughi hanno tirato su con le loro mani alloggi di fortuna, scavato pozzi artigianali, improvvisato sentieri. Un anno fa, gli ex insorti hanno conquistato il palazzo presidenziale e instaurato il nuovo Emirato, versione attualizzata del regime ultrafondamentalista degli anni Novanta. La guerra formalmente è finita. Gli sfollati, in maggioranza, però, non sono rientrati nelle loro case perché queste ultime non ci sono più. Anzi, il tracollo economico seguito al ritorno dei taleban al potere ha portato a Kabul altri disperati attirati dal miraggio di un impiego. La gran parte degli uomini finisce a raccogliere i rifiuti, le donne e i bambini a vendere uova e gomme per strada e a chiedere l’elemosina. Quasi tutti gli allievi di Mohammed Arif mendicano per far sopravvivere sé stessi e le famiglie. Non hanno il tempo né il denaro per uniforme e attrezzatura necessario per frequentare la scuola pubblica che, oltretutto, fa di tutto per scoraggiarne la partecipazione. Grazie ai corsi gratuiti appena aperti dal Servizio gesuita per i rifugiati (Jrs) direttamente nel campo, ora, però, i ragazzini di Sharal e-Police hanno la possibilità di ricevere un’istruzione. Per tanti è la prima volta.

«Sì», rispondono in coro, senza esitazione alla domanda se siano contenti delle lezioni. «Se studio, potrò fare l’ingegnere e costruire una casa vera per la mia famiglia», dice Esan, 10 anni. Nell’aula a fianco c’è la classe delle bambine e, poi, quella delle adulte, avvolte in sciarpa e hijab (lungo soprabito). In realtà, fra loro ci sono anche alcune ragazzine lasciate a casa dal divieto dei taleban di proseguire l’istruzione dopo le elementari. «Abbiamo tantissime richieste e, purtroppo, non riusciamo ad accogliere tutti», racconta Sandesh Gonçalves, rientrato in Afghanistan negli ultimi mesi per coordinare la riapertura delle attività del Jrs. Fino a un anno fa, le l’organizzazione aveva uno staff di 350 persone. Molte di loro hanno lasciato dopo la proclamazione dell’Emirato. «Ora siamo una quarantina e tutti nuovi. Andiamo avanti un passo alla volta», aggiunge Sandesh. A Sharak e-Police, in quattrocento frequentano i corsi del Jrs. «Avevamo 350 posti ma abbiamo cercato di accogliere qualcuno in più. Lavoriamo, inoltre, anche nell’insediamento di Hewadvell, dove abitano 2.400 famiglie». In totale 840 allievi seguono le lezioni quotidiane di due ore, in turni a rotazione. «I corsi sono intensivi e sono basati su un programma speciale grazie al quale, dopo tre anni, i ragazzi possono inserirsi nel percorso scolastico», sottolinea Sandesh. Il Jesuit Worldwide learning ( Jwl), inoltre, in collaborazione con l’organizzazione New Horizon, garantisce l’accesso a un’educazione di qualità a 2.800 studenti e studentesse dei distretti più remoti di quattro province: Bamyan, Herat, Ghor e Daykundi.

I bimbi di Sharak e-Police e Hewadvell di Kabul ora possono studiare grazie al ritorno del Servizio gesuita per i rifugiati: per tanti è la prima volta

«Grazie ai suoi dieci centri – che offrono lezioni di inglese, pc, corsi professionali e percorsi accademici in sviluppo sostenibile grazie all’Università indiana dei gesuiti Ximu – , i ragazzi hanno proseguito la formazione anche durante il cambio di governo», afferma Orville De Silva, incaricato dell’iniziativa. Attività che mai avrebbero potuto permettersi. Specie ora che la crisi ha moltiplicato per due i prezzi del cibo e oltre metà della popolazione soffre la fame. «Non avevo mai visto famiglie intere mendicare», aggiunge. Un legame antico unisce i gesuiti a questo Paese asiatico dove, ufficialmente, non ci sono cristiani: nell’Emirato, proprio come nella passata Repubblica islamica, quella musulmana è l’unica religione e le conversioni sono vietate. Il pioniere, nel 1581, fu Antonio Monserrat. «Era l’insegnante del figlio dell’allora imperatore mongolo Babur». L’attuale impegno afghano del Jrs e del Jwl è legato a Aloysyus Fonseca, deceduto per un’improvvisa malattia a Kabul nel 2004 dove era venuto per esplorare la possibilità di cominciare un’attività nella nazione. «Il suo corpo riposa nel cimitero britannico della capitale. Per noi del Jrs-Jwl, la sua morte è stata una chiamata a lavorare in Afghanistan – conclude Orville –. Un appello a cui continuiamo a rispondere, allora come adesso, con il consenso delle autorità che rispettano il nostro lavoro. Il nostro desiderio è servire e infondere speranza nei giovani. Non possiamo abbandonare gli afghani».

La strage degli Lgbt costretti all’invisibilità: «Noi non esistiamo»

Artin stende il braccio destro e mostra la cicatrice rossastra. Dove c’è una chiazza informe non ancora del tutto rimarginata, fino a quattro mesi fa spiccava un tatuaggio. «Un sole stilizzato. Poi mi hanno preso i taleban e l’hanno levato con un coltello, insieme alla pelle. Per loro, i tatuaggi sono un peccato contro il corpo», racconta il 21enne dagli occhi grandi e frangiati. Indossa l’abito tradizionale pashtun – tunica e pantaloni larghi –, come “consiglia” il codice d’abbigliamento maschile dell’Emirato. Le sue mani, però, giocano con la sciarpa in modo vistosamente femminile. Sono dettagli come questo a tradire Artin e gli altri ex travestiti di Kabul. Anche durante la Repubblica islamica, l’omosessualità era vietata e punita con il carcere. Di fatto, però, le autorità lasciavano correre. Con il ritorno dei taleban, la repressione è asfissiante. «Se ti va bene, ti pestano per darti una lezione – dice Wagih mentre indica la mano ingessata –. Se ti va male, finisci come Sujat…». Il 17enne è stato trovato una mattina di fine luglio impiccato alla recinzione dello zoo di Kabul. Ufficialmente si è suicidato. «In realtà, la polizia l’aveva arrestato il giorno prima: è stato picchiato, stuprato e ucciso – aggiunge Naima –. Per questo, chi non riesce a fuggire, vive nascosto». La gran parte dei circa 10mila esponenti della comunità Lgbt presenti nella capitale prima del 15 agosto 2021, è stata evacuata o è partita in segreto per Iran, Pakistan o Turchia. Ne sono rimasti 1.500. Dieci di loro accettano di parlare con Avvenire in un luogo sicuro alla periferia di Kabul, a condizione di non essere identificati. Come pseudonimi scelgono quelli di cantanti famosi nell’ultimo ventennio, anch’essi partiti o in clandestinità dopo il bando taleban sulla musica. Sanno di rischiare molto. Non esiste una cifra delle persone gay assassinate nell’ultimo anno. Solo i dieci presenti descrivono quattro omicidi di amici o conoscenti, oltre a quello di Sujat: una coppia, ammazzata mentre cercava di entrare in Iran, e due giovani, convocati al comando di polizia e mai tornati.

Se non sempre si arriva alla violenza estrema, gli arresti, le botte, le mutilazioni, sono all’ordine del giorno. L’unica speranza di andare avanti, dunque, per le persone Lgbt è rendersi invisibili. A volte, però, non è possibile. «Hanno trovato dei miei video su YouTube e questo è il risultato», spiega Anush, 24 anni, scoprendo il volto, completamente tumefatto. «Non è la parte peggiore – prosegue –. Mi hanno rapato i capelli a zero e mi hanno messo sotto sorveglianza. Il mullah (leader religioso) controlla che vada in moschea cinque volte al giorno per la preghiera. Se non lo faccio, bruceranno la casa dei miei genitori». Kamshka, 22 anni, era una modella trans, come rivela il fisico alto e longilineo. «Anche se non indosso più abiti femminili, non è difficile riconoscermi. Fino a quando potrò restare nascosta da mia zia? Non riesco più a dormire». «La mia vita ormai è una lunga agonia – conclude Bigam –: mi addormento e mi sveglio nel terrore. Vorrei morire. Non c’è posto per noi nell’Emirato».