Caritas. La lotta silenziosa per la dignità delle donne in fuga dalla Siria
Un medico della Caritas con una mamma siriana e il figlio in Libano
Rima, il nome è di fantasia, si è sposata con un libanese dopo essere giunta in Libano dalla Siria: un accordo stretto dalla sua famiglia, in cambio di denaro. Un “matrimonio di convenienza”, come si dice, ma non certo per lei: continui abusi e lavori umilianti fuori di casa in cambio di un tetto sicuro. Una situazione insostenibile per Rima precipitata in pochi mesi, ancora giovanissima, in una profonda depressione. Quando finalmente decise di chiedere aiuto e venne accolta in uno dei rifugi di Caritas Libano, la scoperta di essere incinta.
Da quel momento Rima iniziò una rincorsa lunga tre anni per recuperare dignità e la fiducia in se stessa, oltre che la custodia della figlia: ora, dopo un percorso di riabilitazione psico-sociale e alcuni corsi di formazione professionale, Rima lavora come commessa in un negozio di elettronica. È questo, quelle donne «vulnerabili», il fronte più oscuro e doloroso della guerra civile in Siria, dimenticato dai bollettini di guerra e da quelli medici. È il terrore, soffocato nel silenzio, di donne sole, o con figli ancora piccoli, che dopo la fuga dalla Siria in Libano hanno conosciuto separazioni, violenze e minacce.
Sono le profughe siriane che – assieme a irachene, asiatiche e nordafricane – bussano agli ostelli di Caritas Libano: sei centri di accoglienza di cui due dedicati in particolare a madri e minori vittime di violenze domestiche e abbandono. «Possiamo ricevere fino a 250 persone, fra donne e minori: oltre l’80% sono siriane», spiega Hessen Sayah Corban, capo del Dipartimento migranti di Caritas Libano. Storie tutte simili, ma ognuna è una sfida per chi lavora per il riscatto delle vittime. Come Yara – anche questo nome è di comodo – giunta in Libano dopo aver divorziato perché il primo marito non accettava la disabilità della seconda figlia. Di nuovo sposata in Libano, perché la famiglia non voleva prendersi carico di lei e dei due figli, Yara iniziò a subire quotidiani abusi psicologici, fisici e sessuali. La nascita del terzo figlio non migliorò la situazione: il marito arrivò a segregare e a privare per giorni del cibo la figlia disabile. Da qui la decisione di fuggire di casa e di chiedere aiuto all’Acnur, l’agenzia Onu per i rifugiati che l’ha fatta ricoverare in uno dei centri Caritas. Anche per lei, grazie a uno staff di una ventina di specialisti, un programma di riabilitazione medico, psicologico ed educativo che sta preparando questa famiglia molto provata ad affrontare in futuro la vita in piena autonomia.
«Il prossimo mese apriremo un nuovo rifugio per le vittime di abusi o vittime del traffico di essere umani », confida Hessen Sayah Corban. «Abusi e traffico di essere umani», forse gli aspetti peggiori di questa guerra dimenticata delle donne siriane. La battaglia per la dignità della donna si combatte anche “porta a porta” attraverso i “centri comunitari” di Caritas: sei nella regione del monte Libano, uno a Saida, uno a Zahle e uno a Tripoli. Un lavoro per favorire l’integrazione e la socializzazione dei profughi con le comunità locali provate dalla crisi economica e dallo sforzo di accoglienza in un Paese di 4 milioni di abitanti che ha dovuto accogliere un milione e mezzo di rifugiati siriani.
La fuga dalla provincia di Idlib - Caritas Internationalis-Reuters
Un enorme piano di intervento, «con una speciale attenzione alle persone più vulnerabili », spiega Irene Giovannetti, coordinatrice di una unità del Dipartimento emergenze e rifugiati di Caritas Libano. Come Hala (nome di comodo) divorziata con quattro figli e unico sostegno economico alla famiglia. Per questo la donna fu costretta a trasferirsi nella tenda della sorella in un campo profughi mentre per sopravvivere lavorava come donna delle pulizie per 3 euro al giorno. Decisivo l’intervento degli assistenti sociali di Caritas: un sussidio di 200 euro per 4 mesi ha permesso ad Hala di affittare una casa mentre due figlie, costrette a lavorare, sono tornate a scuola. «Il problema maggiore per queste donne è trovare scuole materne che accolgano i figli più piccoli così da potere cercare un lavoro», afferma Irene Giovannetti. La sfida è sempre la stessa: dare un volto a donne sole, altrimenti madri di una “generazione perduta”.