Siria. La guerra mai finita di Idlib
Profughi siriani in fuga da una guerra che non finisce mai (Ansa)
«Abbiamo contato centocinquanta bombardamenti in un solo giorno. Il regime ha attaccato quindici edifici pubblici e l’ospedale. Poi, ringraziando il cielo, è tornata un po’ di calma». Raed Fares parla dopo il devastante attacco aereo del 4 febbraio. È il direttore della radio libera di Kafranbel, la leggendaria cittadina siriana nella provincia di Idlib che si è distinta in questi anni di guerra per le sue manifestazioni pacifiche contro il regime di Bashar al-Assad. Nei cortei, la popolazione mostrava striscioni satirici scritti in inglese con i potenti della terra messi alla berlina. In uno si vedeva Putin abbracciare Assad sulla prua di una nave come Leonardo di Caprio nella scena del film Titanic.
Chiediamo a Raed come si fa a trovare la forza di sorridere dopo aver visto tirare fuori i neonati prematuri dalle incubatrici per evacuarli, avvolti in delle coperte, dall’ospedale in fiamme. L’ultimo attacco aereo da parte del regime è avvenuto due giorni fa. «Non possiamo vivere senza scherzare», spiega l’attivista che non ha mai lasciato la sua città durante gli ultimi sette anni di guerra. «Non sarei riuscito a reggere la tensione del conflitto senza ridere, non sarei rimasto sano di mente». Raed dà supporto logistico anche ai White Helmets, il gruppo di protezione civile di siriani, addestrato dai medici internazionali, per soccorrere le persone estratte dalle macerie.
Un salvacondotto per i miliziani del Daesh
I White Helmets sono ancora fortemente presenti a Idlib e in questi giorni portano i feriti gravi negli ospedali sotterranei allestiti clandestinamente. Per le vittime da armi chimiche invece reclamano attrezzature più specifiche: allo stato attuale l’unica cosa che utilizzano per farli rinvenire è l’acqua. «A Saraqib sono stati usati gas al cloro – spiega Khaled Katib – uno dei portavoce dei White Helmets –: i sintomi non lasciavano dubbi». Il quadro del conflitto, poi, non fa che peggiorare. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, l’esercito di Damasco, supportato da quello russo, ha garantito un salvacondotto alle truppe del sedicente stato islamico (Daesh) nel sud di Idlib, per spostarle dalla più strategica provincia di Hama. Non si tratta del primo corridoio di cui godono le truppe del Califfo allo sbando dopo la perdita di Raqqa e Deir El-Zor. «Il regime ha iniziato l’operazione contro queste sacche di resistenza (di Daesh, ndr) dieci giorni fa. Poi è riuscito a riconquistare 80 villaggi e città dopo aver concesso un corridoio di fuga ai miliziani», ha detto il direttore dell’Osservatorio siriano. Hasan Haj Ali, comandante dell’Esercito libero di Idlib, ha confermato le notizie e dichiarato che i suoi uomini sono stati coinvolti in scontri con circa 200 jihadisti. Che non fanno che aumentare: al momento sarebbero circa 400.
Una provincia famosa solo per la produzione di fichi e olive
Viene da chiedersi perché la guerra continui ad accanirsi a Idlib, una zona della Siria famosa solo per la produzione di fichi e olive. «Sembrerebbe una vendetta dei russi per la mancata partecipazione dell’opposizione siriana ai colloqui di Sochi – spiega l’analista Neil Hauer sul sito del think thank Syria deeply –. Un messaggio chiaro per invitare l’opposizione a sedersi al tavolo del prossimo incontro con le forze di Assad e Putin». L’opposizione siriana è ancora finanziata e supportata dalla Turchia. «Mosca e Ankara – ricorda ancora Hauer – hanno un accordo ben preciso», che permette alla Turchia di bombardare i curdi a Afrin (città curda nel Nord di Idlib) mentre la Russia può ripulire la zona a nord di Tartus (dove ha la base militare) dai ribelli anti- Assad. Un gioco che vede nascere e morire alleanze sulla pelle della popolazione civile. «Da quando sono stati evacuati i quartieri ribelli di Aleppo e Homs – ricorda Raeb – la popolazione di Idlib è raddoppiata». E oggi conta più di tre milioni di abitanti. Che vivono tutti sotto minaccia di nuovi bombardamenti.