Etiopia. La guerra «finita» nel Tigrai sei mesi dopo uccide ancora
Il premier etiopie Abiy Ahmed e, sotto, un gruppo di sfollati a Scirè in Tigrai
La più alta autorità religiosa ortodossa eriope rompe un silenzio rumoroso di sei mesi sulla guerra nel Tigrai. Lo fa con un video di 14 minuti postato ieri su Youtube che è la smentita più autorevole del premier Abiy Ahmed. Sua santità Mathias, 80 anni, patriarca ortodosso della nazione con la più antica tradizione cristiana d’Africa, ripreso sullo smartphone il 26 aprile da Dennis Wadley, direttore dell’organizzazione statunitense Bridges Worldwide, chiede in aramaico che cessino le violenze e accusa il governo etiope di voler compiere un genocidio contro il popolo tigrino.
Anche Matthias è di origine tigrina e, in parole confermate dalla Associated Press, elenca le atrocità commesse in questi sei mesi e già documentate dalla stampa internazionale (tra cui Avvenire), da Ong come Amnesty internazional e Human rights watch, dalle Nazioni unite, dalla nuova amministrazione americana e dall’Ue. Ossia atrocità contro la popolazione, massacri, distruzione di chiese e monasteri, saccheggi e la carestia intenzionalmente provocata. Il patriarca chiede al mondo di intervenire. Quanto sembra stridente oggi il rassicurante tweet del 9 novembre 2020 di Abiy Ahmed, premier etiope e Nobel per la pace 2019, il quale cinque giorni prima aveva lanciato un’offensiva contro la regione settentrionale ribelle. Il leader declinava con garbo le diverse offerte di mediazione della comunità internazionale assicurando che era in corso solo un’operazione di polizia per ripristinare il diritto e arrestare il governo regionale del fronte popolare di liberazione del Tigrai, al potere nello stato federale e suoi predecessori al governo centrale, accusati di terrorismo.
Il casus belli sarebbe stato l’attacco delle forze tigrine il 3 novembre a una base federale. Secondo Abiy la guerra si sarebbe conclusa in poche settimane e non avrebbe sprofondato il paese nel caos. Addis Abeba oscurò la rete e bloccò le strade isolando completamente la regione. Il 27 novembre il capoluogo Macallè cadeva e la giunta del Tplf veniva sostituita con una amministrazione ad interim.
Ma sei mesi dopo la guerra continua, anche se non si conosce il numero esatto delle vittime, i giovani tigrini corrono ad arruolarsi e la regione versa in una situazione umanitaria drammatica. Il capo del governo ad interim Mulu Geta è stato sostituito da Abraham Belay, ex ministro federale dell’Innovazione.
Secondo l’Onu almeno 4,5 milioni di tigrini hanno bisogno urgente di aiuti umanitari e, come denunciato dalla Croce Rossa mancano farmaci e cure mediche perché l’80% degli ospedali è stato distrutto o saccheggiato. Gli sfollati nella regione sono oltre un milione, secondo Msf cresce la malnutrizione e circa 65 mila i profughi fuggiti nel vicino Sudan. Per Save the Children i minori, che non vanno a scuola da mesi, sono a rischio di sfruttamento e violenza sessuale mentre quasi 5 mila sono rimasti orfani. L’Onu ha appena stanziato 65 milioni di dollari di aiuti per l’Etiopia, 40 milioni dei quali per il Tigrai. Intanto il conflitto ha assunto portata internazionale dopo che lo stesso Abiy ha dovuto riconoscere, dopo mesi di smentite, che nel conflitto erano coinvolte le truppe eritree alleate con quelle di Addis Abeba.
Ma nulla si muove. Amnesty International ha accusato la comunità internazionale di indifferenza nonostante le notizie di crimini contro l’umanità. Quelli che il patriarca Mathias ha denunciato invocando il giudizio di Dio.