La guerra, quella vera, la si è vista ieri alle porte di Sirte. Perché è a Sirte, anticamera della Tripolitania, che Gheddafi ha schierato i reparti speciali e allestito un contrattacco che potrebbe rompere il fronte di quella strana armata – non proprio un’armata Brancaleone, ma certo non esercito convenzionale – che fino a ieri ha condotto in modo più bizzarro che asimmetrico la propria battaglia.Ieri notte a Bengasi ci ha svegliato un fitto fuoco di artiglieria. Ma era – si scoprirà poi – un fuoco festoso, di giubilo, perché da Est giungeva la notizia che Sirte era caduta. Ma tutti sappiamo come la verità sia sempre la prima vittima della guerra: e non c’è al-Jazeera che tenga, non c’è propaganda che funzioni quando metti i piedi sul terreno violato dalle esplosioni, quando ti scorre un nastro lungo quattrocentocinquanta chilometri (tanti ne abbiamo fatti ieri mattina per raggiungere il fronte) tappezzato di rottami inceneriti di blindati, di carri armati, di cannoncini, auto civili rovesciate come scarafaggi rosolati al fuoco del deserto, e dovunque silenzio, paesi svuotati, villaggi impallinati dai proiettili, niente luce, niente elettricità, niente cibo, la gente in fuga.Da Bengasi a Ras Lanuf, e poi ancora a Ben Jawad, a Nofilia, a Sitar, in quella terra di nessuno dove ci siamo fin troppo orgogliosamente spinti, ogni legge è saltata, ogni regola sospesa. Di qua, centinaia di ragazzi con la kefiah e le bandiere della Libia liberata, di là il rombo sordo dell’artiglieria pesante, a ovest un flusso ininterrotto di volontari, pick-up con mitragliere, fucili automatici. La sensazione che si farà poi certezza che le bugie delle televisioni, le menzogne della propaganda, le fole che corrono nel vento arido del deserto della Sirte non sono che lo zucchero filato che ricopre questa guerra combattuta essenzialmente sull’autostrada, perché così è fatta la Libia, un nastro costiero da Tobruk alla Tunisia e dietro il Fezzan, i grande nulla, un Paese vuoto, desolato, disabitato, grande quattro volte l’Italia e con neanche sei milioni di abitanti. Mezzo milione dei quali in fuga.Dice Ossun, uno dei tanti che sbandiera il mitra, fa il segno di vittoria, ringrazia Allah e sputa su Gheddafi (una litania ormai consolidata a ogni posto di blocco): «Arriveremo a Tripoli, è sicuro. Basteranno due giorni e arriveremo». Non sarà così, questa guerra sghemba non avrebbe avuto la minima probabilità di successo senza il concorso decisivo della no-fly zone e senza le incursioni dei cacciabombardieri francesi e britannici, senza quei missili tomahawk che sfondano le lamiere corazzate dei carri armati, che fanno saltare le torre dei blindati facendole volare a trenta metri dal mezzo blindato, che scavano crateri di sei metri bruciando tutto quello che c’è attorno.Hamid, che ha già trentatré anni ed è di Bengasi, si proclama comandante di brigata: «Stiamo portando i nostri ragazzi migliori davanti a Sirte. È la battaglia più importante, lo sapete che Gheddafi viene da lì? Se cade Sirte cadrà la Libia». Più che una certezza è una speranza, alimentata da chi torna indietro per riposarsi e per fare rifornimento. I gheddafiani rispondono con i missili Grad, vecchio ma sempre efficace arnese che tutto il Medio Oriente adopera, da Hamas e Gaza agli Hezbollah in Libano. Il combattimento si appensantisce a metà pomeriggio. Siamo costretti a riparare a Ras Lanuf, che un tempo dev’essere stata una città-giardino ad uso dei tecnici petroliferi. Ci sono ancora le aiuole con le margherite perfettamente potate, gli oleandri e l’ibisco, ma in compenso non c’è più nessun abitante, nessuna luce. E non un posto dove esser certi di poter essere al sicuro. Le incursioni della coalizione hanno spianato in fretta la strada agli insorti: nello spazio di ventiquattro ore sono stati liberati 350 chilometri di strada, spostando il fronte a ridosso della Tripolitania. Con il risultato che se da qui, sul terreno, si capisce poco di cosa accada veramente a livello strategico, si capisce quasi tutto di com’è la fibra segreta di questa guerra, quella che nessuna televisione potrà mai mostrare. Il lezzo dei pneumatici che bruciano, l’odore chimico delle bombe esplose, il rombo sordo delle esplosioni. E di nuovo siamo costretti a domandarci come abbiano fatto un pugno di ragazzi sui pick-up con qualche lanciarazzi e alcune decine di mitragliatrici leggere ad avere ragione di un esercito, per quanto malandato ma pur sempre addestrato, come quello libico.A dire il vero un’ombra di organizzazione fra queste milizie di volontari rapidamente addestrati nelle ultime settimane ci è sembrato di scorgerla. Un nonsoché di efficienza, di metodo, come se avessero ingranato finalmente la marcia. «Non hanno fatto granché – malignavano due giorni fa i vecchi volponi di Bengasi –: tutti quegli spari notturni per festeggiare la presa di Sirte sono il massimo che hanno fatto. In realtà quelli non sparano neanche un colpo». Sembra inverosimile, eppure anche questa è una versione che dobbiamo riportare. Scoprendo, come si è detto, che in effetti Sirte non è caduta e i cannoni di Gheddafi al contrario si fanno più vicini. E senza nasconderci che dei feriti e dei caduti degli insorti sappiamo poco, per non dire nulla: mai un’ambulanza, mai una sirena. Impassibile, una mare azzurro come il cobalto mormora lieve a pochi metri da dove ci siamo rifugiati per scrivere. E una volta di più ci costringe a riflettere sull’insensatezza delle guerre e sul quella banalità tragica e quotidiana di cui sono fatte, senza ombre di eroismo e senza gloria per nessuno. Ma sono cose, queste, che si sapevano anche prima. Ora però è tempo di inviare questo articolo. Prima che si spenga il computer.