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Il caso. Parigi rilancia la corsa all’uranio, ma il conto dell’atomo lo paga l’Africa

Daniele Zappalà, Parigi sabato 17 giugno 2023

Il presidente nigerino Mohamed Bazoum ricevuto all’Eliseo da Emmanuel Macron

Si fa presto a dire atomo. Tanto più in Francia, dove il presidente Emmanuel Macron torna a promuovere il settore nucleare, anche attraverso una cordata europea di 13 Paesi pro-atomo di cui l’Italia è membro osservatore.

Ma intanto, fra denunce di Ong, avvertimenti d’esperti e documentari coraggiosi, i francesi scoprono il volto nascosto dell’uranio, primo ingrediente delle centrali, fra minacce per gli abitanti attorno ai giacimenti e giochi geopolitici opachi che coinvolgono ormai pure Cina e Russia.

Il gruppo pubblico transalpino Orano ha annunciato che sfrutterà la miniera principale sahariana nel Niger fino al 2040 Il Paese africano deve già fronteggiare il terrorismo, i danni ambientali e il fallimento di altri giacimenti

Il gruppo pubblico transalpino Orano ha appena annunciato che sfrutterà fino al 2040 la propria miniera principale sahariana d’uranio, nel Niger settentrionale: quella presso Arlit, ex accampamento tuareg divenuto una città di 140mila abitanti, dopo mezzo secolo al ritmo di circa 1900 tonnellate d’uranio estratti ogni anno, a fronte d’una produzione mondiale oggi di circa 50mila tonnellate, secondo l’Ocse.

Ma il nome d’una cittadina mineraria “gemella” vicino ad Arlit, Akokan, suona ormai come una specie d’avvertimento. Contava 60mila abitanti fino al 2021, quando Orano e i suoi partner hanno deciso di chiudere la miniera locale, divenuta meno redditizia. Lasciata senz’acqua e elettricità, Akokan è divenuta una città fantasma, dove sopravvivono oggi a stento circa 3mila persone.

Questo trauma, da allora, ha ancor più rafforzato la collaborazione fra Ong locali, come Aghirin Man (“scudo umano” in lingua tuareg), e francesi, come la Crrirad (Commissione di ricerca e informazione indipendenti sulla radioattività), per denunciare il bilancio geopolitico, sociale, sanitario ed ecologico ben poco roseo dello sfruttamento uranifero nel Paese.

Gli accordi fra Parigi e il Niger, oggi presieduto da Mohamed Bazoum, non hanno cancellato molte asimmetrie dell’era coloniale, con quote proprietarie squilibrate — 63,4% per Orano, il resto per la parastatale nigerina Sopamin —, accanto allo sfruttamento gratuito illimitato delle preziose risorse idriche e all’assenza di compensazioni per gli allevatori.

Nel 2020, il Niger assicurava il 6% della produzione mondiale d’uranio, ma il Paese è terzultimo nella graduatoria di sviluppo Undp, rappresentando un esempio del “paradosso dell’abbondanza” che affligge l’Africa, dove ampie risorse fanno rima con devastazioni, guerre, povertà e poca democrazia.

Greenpeace ha denunciato la scarsa protezione assicurata per decenni ai minatori nigerini e le montagne di detriti radioattivi

A partire da rilevamenti condotti pure da Greenpeace, si additano le contaminazioni radioattive nocive alla salute, fra scarsa protezione assicurata per decenni ai minatori nigerini e imponenti montagnole di detriti minerari radioattivi lasciati all’aria aperta, anche se Orano dichiara di volerle in parte ricoprire d’argilla entro il 2026. A circa 700 lavoratori licenziati ad Akokan da ditte in subappalto, poi, sono stati negati indennità e test sanitari regolari.

L’incuria riguarda pure la ferraglia radioattiva proveniente dai giacimenti, finita sul mercato locale e impiegata, una volta fusa, per fabbricare stoviglie o travi d’abitazioni. Fra l’altro, denuncia Greenpeace, il tasso di morti per infezioni respiratorie a Arlit è doppio rispetto al resto del Niger.

Ci sono poi le denunce delle vedove di minatori morti di cancro, spesso prima della pensione. Sono solo alcuni aspetti di un “male” dell’uranio denunciato dalla cineasta Amina Weira, figlia d’un minatore d’Arlit, nel documentario pluripremiato La Colère dans le vent (La rabbia nel vento).

Dal 2028, Orano potrebbe sfruttare un nuovo giacimento gigante di 200 chilometri quadrati a Imouraren, a 80 chilometri a sud di Arlit. Un progetto che preoccupa, come altri, per la contaminazione potenziale dell’acqua.

Nel mirino pure dei rischi terroristici che giustificavano la presenza dei contingenti dell’ex operazione Barkhane, l’uranio non fa più necessariamente sognare i nigerini, anche dopo la fine del quasi monopolio di fatto francese.

Dal 2007, i cinesi sfruttano l’importante giacimento di Azélik, a 80 chilometri ad ovest di Agadez, dove la parastatale nigerina Sopamin controlla solo il 33%.

Anche qui, l’Ong Aghirin Man denuncia una situazione sanitaria allarmante. I canadesi di Global Atomic, invece, sfrutteranno dal 2025 una miniera fra Arlit e Agadez. Un progetto provvisoriamente sospeso dal tribunale d’Agadez, lo scorso febbraio, per ragioni d’impatto ambientale, prima dell’annullamento del verdetto in appello.

Sull’uranio in Africa, sgomita ormai soprattutto la Cina, controllando soprattutto i giacimenti in Namibia, ovvero il 12% della produzione mondiale nel 2021. Ma è all’attacco pure la Russia, con partecipazioni in vari giacimenti. Manovre e giochi d’influenza da cui le società civili africane non vorrebbero più uscire perdenti su tutti i fronti, fra democrazia, salute, ambiente ed economia.