La guerra più lunga. La fine più ingloriosa per l'Afghanistan. Taleban già nel caos
«I taleban, impegnati con la comunità internazionale, non permetteranno ai terroristi di usare l’Afghanistan come base per le loro operazioni. Abbiamo avvertito le truppe americane di possibili gruppi terroristici come il Daesh. Gli americani erano stati informati». In questa pilatesca versione rilasciata dal portavoce dei taleban a Kabul, Zabihullah Mujahid, mentre molte delle vittime dell’orrenda catena di attentati attorno all’aeroporto venivano portate via su carriole di fortuna, c’è tutta la tragica conclusione dell’apocalisse afghana.
Una conclusione in qualche modo prevista – le agenzie di intelligence avevano lanciato l’allarme già da trentasei ore circa un possibile attentato del Daesh – marchia con suggello sanguinoso la catastrofe iniziata con la riconquista talebana del Paese dei giorni scorsi, scandita dalla fuga ignominiosa del presidente Ghani, dal terrore delle migliaia di persone rimaste in balia dei nuovi vincitori, dalla marea biblica di profughi che si riversano ai confini regionali e tentano di approdare in Europa, dal vergognoso paravento mediatico con cui il nuovo regime ha tentato di occultare – ma per poco, molto poco – la sua natura fanatica, illiberale e totalmente ignara dei diritti umani: è di ieri infatti il provvedimento dei taleban che vieta di ascoltare musica, guardare la televisione e recarsi al cinema: esattamente come accadde nel 1979 quando l’ayatollah Khomeini fece ritorno in Iran e i pasdaran applicarono con pugno di ferro un integralismo che il Paese non aveva mai conosciuto. Le bombe tuttavia sono arrivate prima; prima che lo scempio di ogni libertà che i taleban avevano in progetto fin dall’inizio si compisse fino all’ultima fase.
Le bombe, i kamikaze. Ciò che i “conquistatori” avevano appena garantito che non sarebbe stato tollerato nel Paese. Le bombe e i kamikaze, il Daesh. Fingere di ignorare che il convitato di pietra avrebbe fatto sentire la sua voce era un azzardo inaccettabile. Si sapeva, si capiva. A conferma soprattutto che con quella baldanza da “sharia on the rocks”, così presentabile e tanto amica dei social network i taleban non sarebbero andati lontano: perché i quarantamila studenti coranici, con le loro lunghe barbe, con i loro Kalashnikov, con i loro pick-up irti di mitragliatrici pesanti (le stesse che poche ore prima avevamo diretto il tiro contro un aereo-cargo italiano che trasportava profughi, volontari e operatori sanitari?) non sono affatto in grado di controllare il Paese, né di sostituirsi al governo.
Divisi fra loro – chi ci vieta di pensare che gli attentati di giovedì facciano parte di una faida politica interna? – i taleban elargiscono fandonie sesquipedali (ieri l’ineffabile portavoce, lo stesso che si è lavato le mani degli attentati come fosse una sfortunata circostanza naturale, ha assolto Osama Benladen da ogni responsabilità circa l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre, salvo poi rilasciare dalle prigione afghani tutti detenuti legati al Daesh), subito azzerate dall’unica tragica realtà: peggio di così non era possibile, peggio di così il caos afghano – fra le vittime, oltre ad alcuni bambini, ci sono anche dei marines americani – non era immaginabile. Da questa deriva civile, umanitaria, militare riemerge suo malgrado la figura già pesantemente ammaccata di Joe Biden, artefice della exit strategy, sebbene si trattasse di un lascito testamentario obbligato, figlio di una maldestraggine politica iniziata con George W. Bush e proseguita con l’Amministrazione Obama e altrettanto malamente notificata dall’accordo che Donald Trump aveva stipulato a Doha con i taleban.
Ma se per l’opinione pubblica americana – e diciamolo pure, anche internazionale – il fiume di sangue di giovedì pomeriggio conferma che da quel quagmire (il pantano) occorreva assolutamente uscire e che Biden non ha fatto altro che compiere l’ultimo atto necessario, per l’intera comunità mondiale l’Afghanistan rimane un tragico immenso punto interrogativo: la guerra è già ricominciata, il caos è sovrano. La Casa Bianca conferma che il 31 agosto i soldati americani lasceranno il Paese. «Restate a casa!», ululano gli altoparlanti a Kabul. Di meglio, di più i taleban non sanno fare. La loro effimera vittoria ha già il volto di una bruciante sconfitta.