La voce di Amina, giovane dottoressa somala, suona insieme preoccupata e risentita, d’altra parte ne ha ben motivo. «Mia madre non può più uscire di casa», racconta la ragazza, figlia di Hawa Abdi, la ginecologa che ha fondato e gestisce l’ospedale che porta il suo nome. «I ribelli hanno distrutto tutto, dentro e fuori la struttura, e le hanno urlato che secondo la legge islamica una donna non deve lavorare. È una vera tragedia». L’attacco degli estremisti dell’Hizbul Islam, secondo principale gruppo di ribelli dopo al-Shabaab, è avvenuto mercoledì scorso. I guerriglieri erano in maggioranza minorenni, forse il 70%. Come quasi sempre avviene per le vicende di questo disgraziato Paese, sono varie e contraddittorie le ragioni alla base di un dramma non ancora concluso. C’è chi dice che i ribelli cercassero vendetta dopo aver accusato le guardie dell’ospedale di aver assassinato un loro leader qualche giorno prima. Ma, secondo Amina, i militanti volevano soltanto denaro: «Un gruppo d’insorti era già entrato nell’ospedale due settimana fa», conferma la figlia della fondatrice. «Hanno chiesto soldi. Dopo un’accesa e lunga discussione, mia madre ha pagato. Quando sono tornati una seconda volta – continua Amina –, lei si è rifiutata, così loro non hanno perso tempo a trovare qualche pretesto per fare irruzione». È certo che alcuni ribelli siano entrati nel compound provocando uno scontro a fuoco con le guardie al cancello. Sono rimaste uccise almeno quattro persone su entrambi i fronti, in un combattimento senza precedenti nella storia dell’ospedale. Hawa Abdi è stata rapita dai ribelli e portata in un luogo nascosto fino alla sua liberazione, avvenuta qualche ora dopo. Una volta issata la propria bandiera nera, decorata con due spade incrociate sotto la frase «Non c’è altro Dio al di fuori di Allah, e Maometto è il suo profeta», gli aggressori hanno attaccato anche lo staff ospedaliero. Donne, bambini e anziani, che costituiscono la maggioranza delle centinaia di pazienti in cura, sono stati costretti alla fuga. L’ospedale è ora diventato una base dell’Hizbul Islam, e non si sa per quanto tempo rimarrà tale. Hawa Abdi Dhiblawe, sessantatré anni, è la prima ginecologa somala. Dal 1983, anno in cui ha fondato un’organizzazione no-profit poi trasformatasi in ente gestore dell’ospedale, è riuscita a portare avanti una struttura sanitaria che attualmente si occupa di migliaia e migliaia di sfollati. Scappano tutti dalla capitale somala, Mogadiscio, e cercano di raggiungere la cittadina di Afghoy, a una ventina di chilometri di distanza. La dottoressa Dhiblawe parla perfettamente la nostra lingua dato che ha frequentato una scuola italiana di Mogadiscio. Laureatasi in Medicina a Kiev (Ucraina) negli anni Sessanta, lei e il suo staff ospedaliero sono benemeriti in tutta la Somalia perché provvedono gratuitamente alle cure di gran parte dei loro pazienti. Hawa Abdi sfrutta inoltre un terreno di 470 ettari per sfamare la popolazione. «Abbiamo questo appezzamento dal 1978», conferma Amina, che insieme a sua sorella (ora negli Stati uniti per studiare medicina come la madre) lavora nell’ospedale. «Grazie ai finanziamenti della Cooperazione italiana e dell’organizzazione non governativa Cefa, coltiviamo verdura, banane e mais. Finita l’attività in corsia – continua la ragazza –, mi occupavo della terra, ma i ribelli non mi hanno più permesso nemmeno questo». Amina è dovuta scappare dalla Somalia otto mesi fa: «Mia madre diceva che per me non era più sicuro, ha insistito affinché lasciassi il Paese». I casi che arrivano nell’ospedale Hawa Abdi molto spesso sono drammatici. I pazienti raggiungono la struttura sanitaria in stato di choc a causa di quello che i loro occhi hanno visto nella vicina e infernale Mogadiscio. Molti sono fuggiti perché gli scontri tra le forze governative, i caschi verdi dell’Unione africana e i ribelli, hanno decimato le loro famiglie e distrutto le loro case. Secondo lo staff medico, migliaia di donne soffrono di complicazioni durante il parto, i livelli di malnutrizione sono alle stelle, e il colera sta infettando tutta la regione. «Ma nell’ospedale ogni paziente è soltanto un somalo che ha bisogno di aiuto», tiene a precisare durante le interviste la dottoressa Dhiblawe. «Non ci sono appartenenti a fazioni, ricchi o poveri. Se qualcuno cercasse di portare distinzioni di carattere sessuale, religioso o clanico, sarebbe subito espulso». E questa semplice regola è diventata legge quando nel 1991, con l’inizio della guerra civile e il sovraffollamento dell’Hawa Abdi Hospital, un gruppo di militanti entrò nel compound nel tentativo di uccidere i nemici rimasti feriti. «Lei si oppose categoricamente», conferma la figlia. «Dotata di un profondo rispetto per l’umanità, si pose in mezzo e disse agli uomini armati: "Dovrete uccidere me prima dei miei pazienti". Così salvò loro la vita. Sono veramente orgogliosa di lei». Per questo, grazie anche alla sua fama, la notizia dell’attacco all’ospedale e del suo rapimento è subito circolata sui siti Internet somali più seguiti. La diplomazia italiana di base a Nairobi, attraverso l’ambasciatore per la Somalia Stefano A. Dejak, si è messa in moto al fine di fare pressioni per un’immediata liberazione. Inoltre, un comunicato dell’agenzia umanitaria Medici senza frontiere (Msf) ha denunciato l’accaduto che ha coinvolto anche le attività sanitarie dell’organizzazione, portate avanti nell’ospedale dal 2007. Il grosso della comunità internazionale, rappresentato dalle Nazioni Unite, i cui uffici per la Somalia sono collocati nel ricco quartiere di Gigiri, a Nairobi, ha preso atto della vicenda due giorni dopo. Un comunicato stampa emesso da Mark Bowden, Coordinatore Onu delle agenzie umanitarie in Somalia, recitava: «È uno dei principi fondamentali del diritto di guerra non provocare inutili sofferenze attaccando quelle che sono senza possibilità di dubbio istituzioni sanitarie e il loro personale che sta curando i bisognosi». Al momento, intrappolata tra le pareti della propria casa, Hawa Abdi è riuscita a fare trapelare brevi messaggi per la figlia e la stampa: «Sono debole, non posso fare niente, sono bloccata nel mio letto e non posso tornare in ospedale», ha detto sconfortata all’agenzia Ansa, in una delle sue rare telefonate, con la paura di essere scoperta. «I ribelli decidono con i fucili e non con le parole, non sono dei patrioti del loro Paese. Non posso che lanciare un appello a tutti: per favore, aiutatemi».