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La denuncia. La Cina invade la cucina degli uighuri

Luca Miele sabato 15 giugno 2024

Un matrimonio tradizionale nello Xinjiang

Le cucine sono sature di odori. I bastoncini di pasta fritta, le frittelle di cipolla, i panini al vapore sprigionano effluvi intensi, un paesaggio olfattivo fino a poco tempo fa inedito in queste terre aspre. Niente più pane nan, le pagnotte che troneggiano in tutte le case uighure. Al suo posto cibi cinesi, sapori cinesi, odori cinesi. È la cucina il nuovo fronte dell’“avanzata” del gigante asiatico nello Xinjiang. È un aspetto solo apparentemente marginale o periferico. In realtà si tratta della faccia “morbida”, fintamente benevola, ammantata di motivazioni persino nutrizionali e dietetiche, di una penetrazione capillare, di un’intrusione violenta della Cina che ha come scopo ultimo l’assimilazione di questa minoranza di religione musulmana e di etnia turcofona. Una sinizzazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana, e in particolare della cucina, quella dimensione nella quale si saldano motivi tradizionali, conviviali, simbolici e persino sacri.

La scena si è ripetuta un po’ ovunque, con le insegnanti della Federazione femminile cinese pronte ad offrire tutorial pratici per la preparazione di piatti cinesi. Le campagne orchestrate per sinizzare l’identità uighura si susseguono a ritmo serrato. Con la campagna “Visita la gente, avvantaggia la gente e riunisci i cuori della gente” (fanghuiju), a volte chiamata campagna “Diventare famiglia”, flotte di dipendenti pubblici, molti dei quali sono Han, vengono spedite a “vivere, studiare e lavorare” in mezzo agli uighuri in tutto lo Xinjiang. Nei primi quattro anni della campagna, 56.000 gruppi di lavoro hanno visitato oltre 380 milioni di persone. Un lavoro tentacolare, capillare. Come riporta ChineFile, «questi lavoratori non solo fungono da occhi e orecchie del governo, segnalando eventuali tendenze “estremiste” tra la popolazione, ma funzionano anche come trasmettitori di cultura “sana”».
«L’introduzione della “cucina cinese” nelle comunità uighure è una parte fondamentale del vasto “lavoro di stabilità” del Partito-Stato. Oltre ai meccanismi di controllo repressivi e spesso violenti imposti alla regione negli ultimi anni – tra cui l’incarcerazione di massa, il controllo delle nascite e la repressione religiosa – Pechino sta tentando di rimodellare la stessa cultura uighura, combinando un’intensa sorveglianza umana con sforzi “educativi” paternalistici». Ma non basta. Addestrare gli uighuri a preparare la cucina “cinese” serve anche a un altro scopo: creare un ambiente più confortevole per i “guardiani Han” inviati a “vivere, studiare e lavorare”, impiantati, insomma, nella regione.

Una protesta a difesa dei diritti umani nello Xinjiang a Istanbul - ansa

Le denunce delle associazioni che si battono per i diritti umani dipingono una situazione che nella regione si fa sempre più difficile, dove vessazioni e misure rieducative violente mirano “alla cancellazione dell’identità culturale” degli uighuri. Secondo il Center for Uyghur Studies, «il governo controlla anche l’istruzione, promuovendo le idee comuniste cinesi e scoraggiando la lingua e i costumi locali. Dal 2017, le autorità cinesi hanno costruito quelli che chiamano “centri di rieducazione”. Numerose strutture di questo tipo sono state costruite in tutta la regione e sono state ufficialmente descritte dal governo cinese come centri di formazione professionale. I resoconti di coloro che sono sopravvissuti a questi campi dipingono però un quadro diverso, suggerendo che l’intento dietro queste istituzioni è quello di sopprimere con la forza le credenze religiose e l’identità etnica uighura». Per Amnesty International, «per ottenere l’indottrinamento politico e l’assimilazione culturale forzata, il governo ha intrapreso una campagna di detenzioni di massa arbitrarie. Sono stati detenuti un numero enorme di uomini e donne provenienti da gruppi etnici prevalentemente musulmani. Centinaia di migliaia di persone che sono state mandate in prigione così come centinaia di migliaia – forse un milione o più – sono finite in quelli che il governo definisce centri di “formazione” o “istruzione”. Queste strutture sono più in realtà come campi di internamento. I detenuti in questi campi sono sottoposti a un’incessante campagna di indottrinamento, nonché a torture fisiche e psicologiche e ad altre forme di maltrattamenti».