Su un’unica cosa gli analisti sono pronti a scommettere: sarà una conferma della vocazione “coreografica” – e illusionista – del sistema politico cinese. È tutto pronto (o quasi) per il 18esimo Congresso del partito comunista, i cui lavori decolleranno ufficialmente giovedì prossimo. Basta dare un’occhiata alle strade di Pechino per cogliere la portata “defraglante” dell’evento: 800mila volontari della sicurezza piazzati in ogni angolo della capitale, altri 600mila impegnati come ausiliari del traffico. Per non parlare dei poliziotti, delle forze speciali e dei paramilitari che veglieranno sul più imponente rinnovamento della classe politica al timone in Cina. Il Congresso è chiamato infatti a un compito epocale: scegliere gli uomini che guideranno il Paese nei prossimi dieci anni. Non solo presidente e premier – via Hu Jintao e Wen Jiabao, entreranno, al loro posto, Xi Jinping e Li Keqiang. Come ricorda
Le Monde diplomatique, «dei nove componenti del Comitato permanente dell’ufficio politico, il cuore del potere cinese, sette saranno sostituiti: così come dovranno cedere il posto dal 60 al 65% dei membri del Comitato centrale». Comitato, peraltro, che potrebbe subire una cura dimagrante ed essere ristretto a sette membri, come ai tempi in cui era presidente Jiang Zemin. Qui alle certezze subentrano però i dubbi. O gli enigmi. Perché la politica cinese si avvolge da sempre in una cortina fumogena impenetrabile. Un’opacità dietro la quale si nasconde e prolifera una lotta senza esclusione di colpi tra fazioni opposte, una rete di intrighi e alleanze mobili e revocabili, come conferma la “spettacolare” caduta di Bo Xilai, in quello che è stato bollato come lo scandalo più dirompente della recente vita politica cinese. Una spia di quel che avviene nella stanza dei bottoni: il potere in Cina è gestito collegialmente dal e nel Partito, i cambiamenti possono avvenire solo se consensuali e “lievi”, nessun assalto alla cittadella del potere può essere tollerata. Pena una rovinosa fine politica. La stessa scelta del duo Xi Jinping e Li Keqiang – due storie, due formazioni, due biografie lontane una dall’altra – è indicata da molti come una soluzione di compromesso, una scelta tattica dettata dall’equilibrismo tra fazioni. Ma, a pochi giorni dall’inizio del Congresso, non tutte le caselle sono a posto. Così come ancora vacanti sembra siano alcune poltrone. Ma se questo è il gioco delle scatole cinese, quali saranno i temi all’ordine del giorno dei lavori congressuali? Chi entrerà nella stanza dei bottoni non potrà ignorare alcuni “nodi”, compresa la corruzione dilagante che infetta la vita del partito a tutti i livelli, le relazioni sempre più tese degli Stati Uniti e con i vicini – dal Giappone alla Corea del Sud – sempre meno inclini ad accettare i diktat territoriali cinesi, il divario sempre più drammatico tra ricchi e poveri. Ma a “premere” sarà soprattutto il rallentamento della crescita economica del gigante asiatico. Un raffreddamento che rischia di compromettere la base sui cui poggia la “pace sociale” – “lo sviluppo armonioso” di Hu Jintao – che ha consentito alla Cina di affermarsi sulla scena del mondo. E se la seconda economia al mondo continuasse a perdere colpi? Come scrive Giovanni Andornino su
OrizzonteCina «la legittimità del Partito non si fonda più sul mito rivoluzionario-partigiano o sulla tensione ideologica propri delle epoche “eroiche” della fondazione della Repubblica popolare e dell’alto maoismo, bensì sul perdurare di una soddisfacente performance dell’economia nazionale». Se si sfarina la crescita economica crolla anche la pace sociale. E i segnali per la leadership cinese sono allarmanti. Come riferisce il
Time, nel 2010 si sono registrate oltre 180mila proteste, cinque anni prima erano state 87mila. Non solo: gli incidenti sono letteralmente raddoppiati negli ultimi due anni. Dei fantasmi di piazza Tienanmen la leadership non si è mai liberata. Come conferma l’ennesimo giro di vite contro i dissidenti, nel momento in cui Internet riesce a bucare con sempre maggiore facilità il muro della censura di regime. E come dimostra, ancora, l’enorme apparato di sicurezza interna alimentato quest’anno da una spesa record di 110 miliardi di dollari.