La campagna . Le donne israeliane: «Stuprate, picchiate. E il mondo tace»
Uno dei manifesti della campagna Me Too - A meno che tu non sia ebrea
«Alla vigilia del 25 novembre ci siamo dette che non potevamo aspettare un giorno in più. Era necessario far sentire la nostra voce, la voce delle donne israeliane sopravvissute al massacro del 7 ottobre. E di tutte coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta».
Sono le parole di Liron Kroll, direttrice creativa della campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew (“MeToo, a meno che tu sia ebrea), organizzata in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Proprio grazie alla sua professione di direttore artistico, Liron si è attivata fin dal 7 ottobre nell’aiutare chi è stato più colpito dal massacro di Hamas, a partire delle famiglie degli ostaggi.
«Molte di loro sono donne: madri, figlie, nonne – ci racconta –. E la loro pena è doppia. Non solo per quello che hanno subìto durante quel Sabato Nero, ma anche perché a questo dolore si aggiunge il silenzio del mondo: il fatto che quel dolore non venga riconosciuto all’estero. Che non venga addirittura riconosciuto dall’Onu e da quei gruppi femministi che il 25 novembre sfilavano per le strade delle capitali europee e americane».
Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia.
Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati.
Il silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne. Nel denunciare tutto questo, Nicole Lampert, firma di Haaretz, mette in luce anche un aspetto che riguarda le donne a Gaza: «Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi ben prima del 7 ottobre, quando le credenziali di Hamas in fatto di femminismo non erano certo brillanti visto che il gruppo impone l’uso dell’hijab, ha reso illegale viaggiare senza un tutore maschio e si è rifiutato di vietare gli abusi fisici o sessuali all’interno della famiglia».
Invece, la maggior parte dei movimenti femministi ha taciuto. Addirittura, il 30 ottobre, 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione «per il cessate il fuoco» dichiarando, però, che essere solidali con le donne israeliane significa cedere al «femminismo coloniale». Come osservato dalla Lampert, nel Regno Unito l’unica organizzazione a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata “Jewish Women’s Aid”, sottolineando come «il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane».
«Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa», sottolinea dunque la campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew. «Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime», ha scritto – nella campagna Instagram – Keren Sharf Shem, la cui figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Festival Nova. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo (“mamma anch’io”) in cui si possono ascoltare le voci delle donne i cui figli sono stati rapiti o uccisi da Hamas. Lo scopo è sensibilizzare le madri di tutto il mondo per creare consapevolezza su quanto è accaduto. E subito dimenticato dal mondo.