«Signora, le servirebbe una domestica? Per favore, ho tanto bisogno di lavorare…». Delicia lo ripete ad ogni persona che incontra. Da una settimana, la donna vaga per Palermo, uno dei quartieri più esclusivi di Buenos Aires, alla ricerca di un impiego. Non mangia da cinque giorni. Eppure non ha l’aria di una vagabonda. I suoi capelli sono corti e curati, gli abiti puliti, lo sguardo incredulo di chi è costretto a interpretare una parte che non sa. Diciotto anni fa, Delicia è arrivata nella capitale da Corrientes, nel Nord, e qui ha lavorato come cameriera per diverse famiglie. Poi, all’improvviso, è stata licenziata. "Non possiamo più pagarti", è stata la spiegazione della sua ultima datrice di lavoro. Così, a cinquant’anni, la correntina si è trovata senza stipendio. Più in basso, c’è il banchetto di Marcela. Capelli bianchi raccolti in uno chignon e impermeabile grigio, l’anziana vende alfajores - dolcetti tipici - fatti in casa, tre per un peso (venti centesimi di euro). Fino a poche settimane fa, la donna faceva l’assistente parrucchiera. Poi, il salone ha chiuso. Storie in cui ci si imbatte di continuo nelle affollate strade della megalopoli australe. «La crisi è tornata», dice un taxista scrollando le spalle. Difficile dargli torto. La miseria si percepisce ad ogni angolo. I mendicanti non si contano. Ogni giorno, le arterie cittadine sono bloccate dai
piquetes, i cortei di protesta dei disoccupati. Ce ne sono stati 145 nel solo mese di settembre, da 12 anni non se ne avevano tanti. Tra aprile e giugno, sono andati in fumo 165mila posti di lavoro. La gente si ingegna per sopravvivere. La notte, le strade si riempiono di cartoneros: persone che vivono rivendendo quel che trovano tra i rifiuti. Eppure il governo si ostina a sostenere che la povertà è diminuita nell’ultimo anno, passando dal 17 al 13 per cento. Media ed esperti sono, però, convinti che i dati siano stati manipolati. Per le agenzie economiche indipendenti e la Chiesa cattolica, i poveri sono tra il 35 e il 40 per cento della popolazione. E la realtà sembra confermarlo. La nuova depressione è iniziata prima della recessione internazionale. Dopo la semibancarotta del 2001-2002, il Paese ha vissuto una fase di ripresa, crescendo al ritmo annuale dell’otto per cento. Merito della scelta - quasi obbligata - dell’ex presidente Nestor Kirchner di svalutare la moneta, prima parificata al dollaro. I bassi prezzi rendevano i prodotti argentini straordinariamente attraenti sul mercato globale. La fame mondiale di soia e grano ha contribuito, poi, a far decollare le esportazioni. Le luci della
fiesta si sono, però, spente prima che l’Argentina riuscisse a trasformare l’euforia collettiva in un progetto economico di lungo periodo. Non è la prima volta. Sono vent’anni che il Paese si dibatte in una crisi latente, che si acuisce e retrocede. «Quella del 2001 è stata una catastrofe sociale. Abbiamo sfiorato il tracollo. Dopo essere sprofondati così in basso, non potevamo che risalire», spiega Alcira Argumedo, sociologa dell’Università di Buenos Aires e deputato del gruppo "Proyecto Sur", schieramento progressista ma ostile ai Kirchner. La ripresa, però, «è stata un’illusione. E, un anno e mezzo fa -– aggiunge la Argumedo –, con "la guerra agricola", ci siamo risvegliati dal sogno». Il braccio di ferro tra il governo di Cristina Kirchner, eletta come successore del marito nel 2007, e il settore agro-pastorale ha messo in luce la fragilità del recupero. A scatenare il conflitto, la proposta dell’esecutivo di aumentare le imposte sulle esportazioni agricole, dato che grano e soia avevano triplicato il loro valore di scambio internazionale. «Vogliamo ridistribuire la ricchezza», era il leit-motiv del kirchnerismo. Per l’opposizione si è trattato, invece, di un tentativo del potere centrale di assicurarsi un fondo – le tasse sulle esportazioni sono amministrate solo dal governo – da ripartire in cambio di consensi. Contro la
presidenta si sono uniti piccoli e grandi produttori, equiparati dal provvedimento. Il contrasto si è trasformato in una battaglia sociale. Vinta, in apparenza, dagli agricoltori, per un solo voto. Ma le ferite aperte dallo scontro non sono state ricucite. Le campagne, principale risorsa dell’Interior", l’ampia zona delle Pampas, sono tuttora paralizzate. I produttori ritengono poco remunerativo coltivare: le imposte non sono aumentate ma ora risultano troppo alte dopo il calo dei prezzi causato dalla crisi internazionale. La Kirchner, però, non vuole abbassarle. Anche le richieste di concimi e macchinari sono, dunque, crollate. E le ditte hanno dovuto tagliare il personale. «Anche senza la "guerra agricola", la recessione sarebbe arrivata comunque», sostiene Juan Fal, economista dell’Università nazionale General Sarmiento. A crescere, dopo il 2001, è stato soprattutto il settore delle costruzioni. «Un ambito incapace di generare ricchezza e impieghi stabili. Ai primi accenni di depressione, l’edilizia si blocca», sottolinea Fal. I capitali accumulati durante gli anni della
fiesta non sono stati utilizzati per investimenti strutturali. Gli unici in grado di correggere le crescenti disuguaglianze. «È la disparità il principale problema ora», afferma German Pinazo, politologo dell’Università Sarmiento. Il default del 2001 ha travolto quella numerosa classe media che storicamente differenziava il Paese dal resto del Continente. La «latinoamericanizzazione» dell’Argentina si è fatta via via più marcata. E la classe politica sembra incapace di invertire la tendenza. I ricchi sono meno del 10 per cento, il resto è povero o rischia di diventarlo al primo scossone. La paura di «precipitare verso il basso» è l’ossessione nazionale. «Ma io non sono pessimista – afferma monsignor Eduardo Garcia, vicario generale dell’Arcidiocesi di Buenos Aires –. Qui c’è un capitale umano straordinario. I giovani hanno voglia di costruire un’Argentina più giusta. Devono ancora trovare la strada ma sono già in cammino».