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Intervista. Il nunzio apostolico a Kiev: non lasciate sola l'Ucraina

Giacomo Gambassi, inviato a Zaporizhzhia giovedì 4 aprile 2024

L'arcivescovo Kulbokas, nunzio apostolico a Kiev

«Chi può fermare una guerra che è stata iniziata da una potenza nucleare?». La domanda che si pone il nunzio apostolico a Kiev, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, è quella che si fanno tutti quanti hanno a cuore le sorti dell’umanità di fronte al conflitto in Ucraina. La potenza nucleare di cui parla il presule d’origine lituana è la Russia che da due anni sta devastando il Paese confinante. «La logica umana ci dice che i mezzi militari e le attuali strategie politiche non garantiscono vie d’uscita. Allora che cosa fare? Rassegnarci? No e poi no, è la risposta del Papa. Ecco perché Francesco chiede al mondo di avere maggiore coraggio e si appella alla creatività di tutti». L’arcivescovo Kulbokas ha scelto la città di Zaporizhzhia per celebrare la Pasqua insieme alla comunità cattolica di rito latino, guidata dal vescovo Jan Sobilo, che ha festeggiato la Risurrezione di Cristo domenica scorsa. Ma anche con i greco-cattolici della città che ha incontrato nella mattina di Pasqua e che celebreranno la solennità il 5 maggio secondo il calendario che segue anche il mondo ortodosso. A Natale il nunzio era stato a Kharkiv. Due luoghi in cui l’aggressione russa si avverte con particolare intensità: per l’esercito di Mosca a poche decine di chilometri; per i bombardamenti all’ordine del giorno; per il popolo degli sfollati che entrambe le città accolgono. «Il Papa segue con speciale attenzione le notizie che arrivano dalle zone del fronte – racconta Kulbokas –. Territori nei quali ha inviato più volte il cardinale elemosiniere Konrad Krajewski. Il Pontefice è vicino alla gente che soffre in molteplici modi: con la preghiera; con l’interessamento personale; con gli aiuti». Una pausa. «Il tempo di Pasqua ci chiede di farci prossimi. Un tempo che, se vissuto durante la guerra, invita a una sollecitudine che non è soltanto spirituale ma anche sociale, economica, politica, diplomatica».
Eccellenza, il Pontefice ha esortato ad «aprire i cuori» nel giorno di Pasqua. Significa anche un negoziato?
Ad oggi mancano le condizioni per il dialogo o per un negoziato. Ma il Papa sa benissimo che non saranno le armi a fermare la guerra in Ucraina e a costruire la pace. Allora viene da chiedersi: come avverrà? Se al momento le risposte non ci sono, Francesco ci incoraggia a non cadere nella disperazione. E ribadisce con forza che occorre cercare soluzioni. A mio avviso, la comunità internazionale non può considerare la guerra in corso come un “conflitto di qualcun altro”, ossia che non interessa tutti. Perciò servirà un negoziato che coinvolga molti attori, da partire delle maggiori potenze.
Il conflitto potrebbe superare gli attuali confini ucraini. C’è che si arrivi a una Terza guerra mondiale?
Mi stupisco che taluni non se ne rendano conto. La guerra in Ucraina non riguarda solo l’Ucraina, benché ci sia chi sostiene: «Se l’Ucraina c’è o non c’è, non cambia molto». Quando la Chiesa ripete che un conflitto armato va evitato a ogni costo, è perché ritiene che, se si oltrepassa una determinata soglia e si entra nella spirale nucleare, è il destino dell’intera umanità a essere messo in discussione. Occorre che il mondo percepisca la gravità della situazione e abbia un sussulto di responsabilità per comprendere in quale maniera agire.
Francesco ha chiesto a Mosca e Kiev uno scambio di tutti i prigionieri. Dove manca la mediazione diplomatica, può essere utile quella umanitaria?
Sicuramente, perché consente di aprire brecce. La missione che il Papa ha affidato al cardinale Matteo Zuppi è particolare e direi che è solo agli inizi nonostante i primi passi siano stati mossi quasi un anno fa. È agli inizi perché è faticosa ed è un percorso da definire di volta in volta. Quando una porta si chiude, occorre capire se sia possibile aprirne un’altra. Si tratta di mettersi al servizio della vita: in questo caso, dei prigionieri di guerra, siano essi militari o civili, e dei bambini ucraini portati in Russia.
Il patriarcato di Mosca parla di «guerra santa» contro l’Ucraina nel testo conclusivo del “Concilio mondiale del popolo russo”.
È un documento che conferma concetti già espressi in passato ma li esplicita con maggiore determinazione. E testimonia che siamo di fronte a una guerra ideologica. Pertanto ancora più complessa da arginare.
L’Ucraina teme di essere dimenticata?
È un processo fisiologico che dopo due anni di ostilità un Paese “distante” dall’Ucraina non segua le vicende di guerra con la stessa partecipazione dei primi mesi. Ciò significa anche minor attenzione da più punti di vista: politico, militare, umanitario. Il tutto si traduce in solitudine per l’Ucraina che la rende più vulnerabile.
La popolazione è stanca?
La situazione è molto pesante. Gli sfollati interni sono milioni e vivono in condizioni difficili. A ridosso del fronte scarseggiano il cibo, l’elettricità, il lavoro. Ho letto negli occhi della gente che ha ricevuto un pezzo di pane la loro gratitudine. E che cosa dire dei morti, dei feriti, di chi è prigioniero? Appartengono alla regione di Zaporizhzhia due sacerdoti greco-cattolici di cui non abbiamo notizie da oltre un anno (dopo l’arresto da parte delle autorità russe nella città occupata di Berdyansk, ndr). La nazione è alle prese con molteplici sfide che il governo non riesce ad affrontare da solo: ha bisogno della comunità internazionale, delle Ong, delle Chiese.
Le autorità ucraine hanno rinnovato al Papa l’invito a visitare il Paese. Perché questa insistenza?
Anzitutto, perché si intende far percepire fisicamente il clima di guerra. È diffuso il desiderio della presenza di Francesco qui tra di noi. Il Papa non è solo il capo della Chiesa cattolica ma un’indiscussa autorità morale a livello mondiale. La sua venuta sarebbe un abbraccio al popolo martoriato. Ma, come ha detto il Pontefice stesso, sarà lui personalmente, in ascolto dello Spirito, a valutare quale sia il momento più opportuno per compiere questo gesto.