Hamas-Israele. «Al fondo di questo conflitto c'è la deumanizzazione dell’altro»
Paola Caridi
«Quando si vede una madre disperata perché, uscita a cercare il pane, trova i figli ammazzati da un bombardamento; quando si vede una madre straziata perché ha sua figlia fra gli ostaggi, mi chiedo cosa farei se io fossi quella madre». Dopo mezz’ora di analisi politica Paola Caridi – autrice di Hamas. Dalla resistenza al regime, che Feltrinelli ha pubblicato in seconda edizione da poche settimane – risponde forse alla domanda più difficile. «Questo significa, anche in questo conflitto, riconoscere l’altro». La tregua tra Israele a Hamas, svanita la scorsa settimana, sembra ora un miraggio meno lontano.
Paola Caridi, è realistico pensare a una trattativa politica, sia pure mediata, con Hamas?
Ci sono dichiarazioni roboanti da parte di Israele: «Mai con Hamas, dobbiamo distruggerli». Israele ha affermato questo dal 2006-2007 riconoscendo come possibile interlocutore solo il presidente dell’Anp, Abu Mazen. Però Israele e Hamas hanno fatto in questo ventennio trattative indirette: eclatante quella per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit. Trattativa che sarebbe necessaria perché l’Anp non riesce nemmeno a governare la Cisgiordania, e questo da ben prima del 7 ottobre 2023. L’avvio di una trattativa ora, potrebbe dipendere in gran parte da quello che riuscirà a fare la comunità internazionale. E sinora molto poco si è riuscito a fare, soprattutto nei confronti di Israele durante 4 mesi di bombardamenti su Gaza. Per quanto riguarda Hamas, esistono diverse componenti: sembra che si siano ricompattate ma non sappiamo ancora come. Dopo un primo momento di sbandamento e imbarazzato silenzio dopo l’attacco del 7 ottobre la leadership all’estero a Doha, ma anche in Libano, perché in Cisgiordania sono quasi tutti in prigione, è rimasta incerta. Hamas si è ricompattata dopo tre mesi e mezzo di silenzio con il documento “La nostra narrativa” sulla strage del 7 ottobre, in cui si riconoscono degli «errori». Ma a contare è soprattutto la tempistica: ci sono voluti tre mesi per arrivare ad avere un documento comune. La domanda, adesso, è con quale reale leadership al suo interno.
Dunque, due opposti estremismi che si confrontano, senza possibilità di avviare un dialogo?
È sbagliato, in Medio Oriente, vedere tutto bianco o nero. Ci sono opposti estremismi, ma è una questione di forza sul terreno e di politiche. Israele è potenza occupante, non ha mai mostrato di volere realmente riconoscere lo Stato di Palestina. Inoltre Israele ha continuato a costruire le colonie provocando una erosione del territorio palestinese, ma anche – mi riferisco alla Cisgiordania e Gerusalemme Est – lasciando intendere di voler espellere la popolazione palestinese. Dall’altra parte Hamas afferma, nella sua carta fondativa del 1988, di voler la distruzione dello Stato di Israele. Però nei fatti, nel 2017, ha riconosciuto le frontiere del 1967 in un documento approvato, sia pure in maniera ambigua e opaca, da tutto il movimento. Nel 2006 Hamas partecipa alle elezione dell’Anp, entità territoriale che è il frutto del processo di Oslo. Decisione che rappresenta un riconoscimento de facto. Quindi Hamas qualche movimento l’ha fatto, partecipando ad elezioni di una istituzione che invece prima osteggiava. Opposti estremismi, ma determinati anche dal personale politico. Olmert aprì alle elezioni nell’Anp, adesso si confrontano Netanyahu e Sinwar.
In Irlanda, ad esempio, si è passati dal terrorismo dell’Ira all’azione politica dello Sinn Féin. Uno schema fallito in Palestina?
Non è fallito per l’Olp che, da movimento terroristico, ha poi riconosciuto Israele e costruito delle istituzioni. Uno schema che può reggere anche in Palestina, dunque. Il problema è che al fondo di questa storia c’è un mancato riconoscimento dell’altro. I palestinesi, non Hamas, tutto sommato hanno riconosciuto Israele: è la potenza occupante. Ma lo Stato di Israele riconosce la possibilità di uno Stato di Palestina? Al fondo di tutto questo c’è la deumanizzazione, l’incapacità di riconoscere l’altro. C’è una data, il 1948: non si può pensare che sia solo la cacciata dei palestinesi, per gli ebrei è la fondazione di Israele. E per una parte degli israeliani quella fondazione non doveva comprendere assolutamente palestinesi. Quello che dicono alcuni ministri del governo di Benjamin Netanyahu riguardo a Gaza è che, in sostanza, vogliono compiere l’opera iniziata nel 1948.