Il profilo. L'interprete del grande scontento che ha sconvolto la politica
Trump nella trasmissione televisiva "The Apprentice"
Al termine della lunga e turbolenta cavalcata fino al giornofatidico dell’8 novembre vien da chiedersi in quale anfratto della vita civile (e incivile) degli Stati Uniti lo zoccolo del cavallo Donald Trump non sia passato.
Lui stesso ha interpretato senza mai indulgere alla modestia decine di personaggi, dall’allievo della Wharton School of Business in Pennsylvania al “wrestler” che va a sfidare il re della categoria Vince McMahon (ma per interposta persona: a battersi furono due campioni scelti dagli sfidanti, e a vincere fu quello di Trump), dal giovane palazzinaro che si fa le ossa nella società di famiglia (l’Elizabeth Trump & Son) al produttore-conduttore del reality televisivo “The apprentice” (celebre il suo grido di guerra: «You’re fired!», sei licenziato!), dal “cameo” in Celebrity di Woody Allen e Wall Street: Money Never Sleeps di Oliver Stone allo sfacciato elusore fiscale grazie alle spericolate manovre dei suoi commercialisti che gli hanno evitato di versare centinaia di milioni di dollari all’erario corroborando l’immagine vincente dello sfrontato multimiliardario (3,7 miliardi di dollari il suo patrimonio secondo Forbes, “soltanto” 3 per Bloomberg), fino al vorticoso cambio di casacca nelle sue simpatie politiche: esordisce nel 1987 come supporter di Ronald Reagan, poi passa al Partito della Riforma del miliardario texano Ross Perot, quindi nel 2001 si dichiara democratico, ma sette anni dopo si schiera con lo sfidante di Obama John Mc Cain e si fa registrare come repubblicano per tornare indipendente nel 2011 e di nuovo repubblicano con l’appoggio al mormone Mitt Romney nel 2012, salvo poi dichiarare nel 2015 che il migliore fra i presidenti degli ultimi anni era stato Bill Clinton e subito dopo candidarsi alle primarie del Grand Old Party forte di uno slogan irresistibile, «Make America great again».
Trump ha pescato, oltre che nell'elettorato bianco, nel vasto stagno della grande delusione che serpeggia attraversando l’intera società, dalla middle class bianca agli ispanici, dai neri ai “redneck”, e che attesta senza possibilità di equivoco che il sogno americano è ormai un ricordo e l’ascensore sociale si è fermato da tempo, nonostante gli sforzi generosi di Obama. La pursuit of happiness, quel “perseguimento della felicità” di ispirazione massonica che lumeggia orgoglioso nel secondo paragrafo della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776 è stato il grimaldello con cui Trump ha divelto e messo a nudo il disagio del cittadino deluso.
Se dovessimo enumerare anche uno solo dei danni che Donald Trump ha inflitto al tessuto civile americano, quello del rancore e della vendetta è forse il più pericoloso e il più difficile da estirpare. Invocando incessantemente il complotto dei poteri forti, delle lobby finanziarie, petrolifere, militari, dei grandi giornali (in questo tardivi nel comprendere il fenomeno “The Donald” e stupidamente partigiani e disequilibrati nel metterlo immediatamente all’indice come un paria, favorendone in ciò l’ascesa presso l’opinione pubblica maggiormente delusa dagli anni di Obama e gli indecisi) Trump ha fatto da tragico maieuta al sordo ribollire della grande scontentezza americana.
Privo di mezze misure, spietato come un nababbo del primo Novecento la cui ricchezza smisurata si accompagnava allo spregiudicato sfruttamento di ogni risorsa possibile (naturale, finanziaria, umana), aggressivo e irrispettoso nei confronti delle donne, dei disabili, dei meno fortunati, dei poveri, degli emarginati come di chiunque gli fosse avversario, “The Donald” ha cavalcato la rabbia e lo scontento americano sfiancando il suo destriero, cadendo e risollevandosi, scandendo minacce e proclami degni di un dittatore da operetta («La Clinton dovrebbe stare in galera», «Costruirò un muro al confine messicano e saranno i messicani a pagarlo») ma anche carichi di sovversiva seduzione populista («Non so ancora se riconoscerò il risultato elettorale», «Tutti i media complottano contro di me»), fino a infangare, oltre alla propria immagine, quella della sua avversaria.
Non è un caso il fatto che – complice, è vero, la dannosa opacità della candidata democratica - un sondaggio Washington Post/Abc effettuato cinque giorni prima delle elezioni attestava come per molti americani Trump fosse considerato più onesto e meno bugiardo di Hillary Clinton. La ragione è molto semplice, come spiega il New Yorker: «Ostentando con puntiglio il suo narcisismo, il suo disprezzo per le regole, per le donne, per le tasse,Trump ha finito per risultare genuino, autentico, dunque più onesto di Hillary.
Cosa resterà di questo tsunami delle regole e dei riti della politica politicante è presto per dirlo. Come è vano tentare di immaginare come si rimargineranno le ferite che Trump ha lasciato nel corpo sociale. Ma non è da escludere che la lunga corsa del tycoon newyorkese svaporerà nel ricordo di un anno folle e vissuto pericolosamente.