L'altro fronte. A Jenin, in Cisgiordania, si combatte nella «piccola Gaza»
La sede di un centro di riabilitazione a Jenin devastato da un raid israeliano
L’altra Gaza è 200 chilometri più a Nord. Si combatte ogni notte. Ma non c’è modo di addomesticare Jenin. Non con le armi. In nessun altro luogo della Cisgiordania si sono saldati vecchi e nuovi combattenti: Hamas e la Jihad islamica, i reduci del Fronte popolare della Palestina e i veterani del braccio armato di Fatah, il partito che governa l’Autorità nazionale palestinese.
Nella notte tra domenica e ieri 5 giovani palestinesi sono stati uccisi negli scontri a fuoco con le forze israeliane avvenuti in uno dei campi profughi. Lo ha confermato un portavoce delle forze di difesa israeliane, aggiungendo che 21 persone ricercate sono state arrestate durante le operazioni dell’esercito. Dall’inizio della guerra, in tutta la Cisgiordania, sono state arrestate oltre 2.000 persone di cui circa 1.100 definiti come affiliati ad Hamas.
Lungo le strade che dalla valle del Giordano risalgono in direzione di Nablus e Jenin, si possono notare le vedette appostate ovunque. Sono loro ad avvertire dell’ingresso di auto con targa israeliana che potenzialmente potrebbero trasportare gli incursori dell’esercito. Aprono la strada alle retate e danno gli ordini alle colonne di blindati che in pochi minuti assediano i quartieri.
A Jenin oramai non c’è modo di distinguere i campi profughi dal centro urbano. Per gli oltre 75mila discendenti degli sfollati palestinesi cacciati fin dalla guerra del 1948 e riparati a Nord, anche solo andare a comprare il pane è un’impresa. Specie nei giorni di pioggia. Di notte l’esercito israeliano irrompe con i caterpillar blindati e spacca le strade sfondando anche la rete fognaria, distruggendo luoghi di ritrovo e travolgendo i simboli della resistenza armata. Negli ultimi tempi i blitz sul terreno sono assistiti dal volo di droni che sparano ordigni a frammentazione.
Dopo gli scontri, al mattino le strade non sono altro che fossati nauseabondi: auto, moto, scuolabus non riescono più a passare e così insieme alla frustrazione monta la rabbia. È benzina sul fuoco dei fondamentalisti, che a ogni raid israeliano vedono morire alcuni giovani, ma il giorno dopo più del doppio chiederà di essere addestrato negli improvvisati poligoni dei ribelli.
Dall’inizio dell’anno i palestinesi uccisi in scontri con le forze armate sono stati più di 400, metà dei quali nelle ultime sette settimane. Mai così tanti da molti anni. E a nulla serve spiegare alla gente del posto che Hamas ha trucidato 1.200 civili e preso più di 200 ostaggi. Un crimine che i più giovani ed esagitati apparentemente non giustificano, ma nei fatti considerano inevitabile. Ibrahim parla chiaro. Fin troppo: «Il problema – dice – non è Hamas, il problema è che non abbiamo diritti, che non abbiamo possibilità, e che ci schiacciano come mosche», reagisce dopo essere tornato dal barbiere. Ha chiesto di tagliarsi i capelli, disfacendosi dei ricci, come l’amico ucciso da un drone israeliano l’altra notte e già seppellito in un improvvisato cimitero per i caduti dell’Intifada che nessuno vede.
Solo mettendo piede tra i vicoli, inoltrandosi fin dentro alle abitazioni, si può tentare di raccogliere il disagio profondo di una generazione che non crede più alla politica e non vede alternativa alla risposta armata. Sembra facile arrivare a Jenin. Si trova nel cuore della Cisgiordania. A Giudicare dalle mappe, il territorio israeliano è fuori dal circondario. Ma non è così. Le colonie di occupazione si moltiplicano e ciascuna porta con sé una dote di posti di controllo e nuove tensioni.
Comprendere come funziona amministrativamente il territorio palestinese è un rompicapo. Nella regione, che sulle maggior parte delle mappe è tracciata sbrigativamente come un unico spazio sotto l’amministrazione palestinese, vi sono oltre 120 insediamenti ufficiali dei coloni israeliani, con altrettante fortificazioni in cemento armato, oltre a un imprecisato numero di nuove colonie con posti di blocco gestiti dai coloni armati insieme all’esercito. Nell’area formalmente attribuita alla Palestina, è impossibile partire da una città e raggiungere quella di fianco, che in linea d’aria dista magari un solo chilometro, senza attraversare un fazzoletto di terra controllato dagli israeliani. Possono aprire o chiudere i passaggi senza preavviso.
Dicono che serve a proteggere Israele dagli attacchi e in effetti da molti anni non si vedono attentati nelle grandi città israeliane. Ma questo non spegne il malessere né i rancori. Ieri per percorrere i poco più di 100 chilometri che separano Gerusalemme da Jenin abbiamo impiegato più di 4 ore per tratta, oltre metà in coda ai posti di controllo israeliani in territorio palestinese. A Betlemme nei giorni scorsi decine di auto sono rimaste bloccate per ore. Un giovane palestinese era stato sorpreso a esporre una manifesto pro-Gaza. In tutta risposta i militari hanno chiuso la città. Sui social network i propagandisti di Hamas ne hanno approfittato per incitare a un’altra stagione di odio.