A Gaza. «Marciava con le palestinesi per il dialogo», Vivian ora è ostaggio di Hamas
In prima fila la 74enne canadese-israeliana Vivian Silver il 4 ottobre in una manifestazione a Gerusalemme
«Ci siamo viste l’ultima volta il 4 ottobre. Insieme alle 50mila attiviste israeliane di “Women wage peace” e alle “colleghe” palestinesi di “Women of the sun” abbiamo manifestato di fronte al Monumento alla pace di Gerusalemme per chiedere una soluzione negoziata del conflitto che avvelena da troppo tempo i nostri popoli. Vivian era là, in prima linea, come sempre». Negli ultimi decenni, Vivian Silver, 74enne di origine canadese, ha partecipato a qualunque iniziativa per chiedere un approccio nonviolento. Specie da quando ha contribuito a fondare “Women wage peace”, tra i più partecipati movimenti israeliani per la pace e i diritti umani. Era il 2014 e lo Stato ebraico era in guerra con Hamas per la quarta volta da quando il gruppo armato aveva preso il controllo di Gaza, sette anni prima.
«Vivian aveva capito che solo una trattativa con i palestinesi avrebbe garantito vera sicurezza a Israele, mettendo fuori gioco le formazioni estremiste – racconta l’amica Peta Jones Pellach, ebrea ortodossa nata in Australia, attivista di “Women wage peace” e coordinatrice del gruppo di preghiera interreligiosa dell’Elijah Institute –. E credeva che le donne, troppo a lungo ignorate da entrambe le parti, dovessero essere protagoniste del negoziato. Era solita ripetere: “Ci hanno fatto credere che solo la guerra avrebbe portato la pace. Ma è accaduto il contrario. Perché dovremmo continuare in questo modo?”».
Tanti si chiedono che cosa avrebbe detto Vivian Silver dell’ultima fiammata di violenza cominciata con il massacro di Hamas il 7 ottobre. Stavolta, però, l’attivista non può fare sentire la sua voce. Due settimane fa, per uno dei crudeli paradossi in cui il conflitto imprigiona israeliani e palestinesi, è stata catturata da un gruppo di miliziani di Hamas che ha devastato il kibbutz dove viveva – Be’eri –, assassinando oltre cento dei mille abitanti. Invano ha cercato di salvarsi nascondendosi nella camera da letto, al piano di sopra.
La stanza non c’è più: l’intera abitazione è un cumulo di macerie annerite dal fuoco, come può testimoniare chi si è recato a Be’eri. «Dall’armadio, ha raccontato in diretta l’assalto al figlio Yonatan, fino a quando i terroristi non l’hanno trovata e portata in una prigione a Gaza insieme ad altre 202 persone – aggiunge Peta –. Quando ho sentito la notizia non ci potevo credere. Come hanno potuto fare questo a Vivian che si batteva per la libertà di movimento dei residenti della Striscia dove si recava come volontaria? Quando le autorità israeliane davano l’autorizzazione, portava i malati a curarsi nei centri sanitari dello Stato ebraico».
Immediatamente “Women wage peace” si è mobilitata per il suo rilascio. Subito dopo la strage perpetrata da Hamas, l’organizzazione ha pubblicato sui suoi social l’immagine di una colomba insanguinata. Una settimana fa, ha lanciato un forte appello : «Ogni madre, ebrea e araba, dà alla luce i suoi figli per vederli crescere e fiorire e non per seppellirli. Ecco perché, anche oggi, nel dolore e nella sensazione che la fede nella pace sia crollata, tendiamo una mano pacifica alle madri di Gaza e della Cisgiordania».
«Ho appena terminato una riunione virtuale con le colleghe palestinesi di “Women of the sun” per coordinare ulteriori iniziative. Sono addolorate per Vivian e ne chiedono con forza il rilascio. Soprattutto sono sconvolte per la brutalità dell’eccidio e hanno voluto esprimerci la loro solidarietà. Non mi ha sorpreso. Chiunque consideri gli ebrei esseri umani non può giustificare i terroristi», sottolinea Peta. E conclude: «Da osservatrice comprendo la necessità di eliminare Hamas. Da ebrea osservante, però, provo dolore per la morte di tanti innocenti. Come colpire i terroristi senza uccidere i palestinesi di Gaza che sono ostaggio, proprio come Vivian? Non lo so. Per la prima volta, mi sento smarrita».