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Analisi. Addio alle guerre lampo, Israele paga i tagli all'esercito

Francesco Palmas mercoledì 16 ottobre 2024

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Negli ultimi anni, Israele ci aveva abituato a guerre rapide, più compatibili con le sue caratteristiche di paese privo di profondità strategica, con un esercito avanzatissimo per tecnologie ma senza massa, alimentato più da riservisti che da regolari, con poca memoria storica dei conflitti precedenti: un capitale umano sottratto da un anno a un’economia fatta di start-up ad alto valore aggiunto.

La guerra post 7 ottobre, la più lunga della storia israeliana per le sue caratteristiche che presentano un assetto multifronte e a-lineare, è incentrata ad annientare tecnoguerriglie che hanno fatto dei missili, dei tunnel, dei sotterranei, dei centri urbani e delle aree civili l’arma di difesa principale, sta creando più di un grattacapo, a dispetto della bontà del piano Gideon e della maturità operativa conseguita a Gaza.

È vero: sono cambiati i nemici, prima convenzionali e combattuti soprattutto in terreni aperti, ora invece semi-asimettrici e trincerati in città. Forse l’esercito israeliano paga i tagli di effettivi degli anni scorsi e con meno brigate disponibili è davvero difficile presidiare i territori, conquistarli, occuparli e amministrarli, come avvenuto spesso in passato.

Dov’è l’alternativa postbellica a un conflitto che convive con l’utopia dell’annientamento del nemico? Dov’è la Guerra dei sei giorni, rapidissima, con una manovra tesa ad annichilire il nemico con azioni repentine, improvvise e dirompenti, guidate dalla superiorità dell’intelligence?

Ricorda uno studio del 17esimo gruppo di lavoro dell’Istituto superiore interforze che quelli erano gli anni «del pugno di ferro», di rabiniana memoria: colpire in fretta il cuore del dispositivo nemico, sfruttando concentramenti di truppe corazzate, manovre interne, avvolgimento, appoggio di aerei, paracadutisti e unità di guerra elettronica.

È sempre stata quella la forza della dottrina militare ebraica: ritmi elevati, iniziativa dalla propria parte, ampio uso di commando, manovra e riserve mobili. Avviene tuttora, anche se il 7 ottobre di Hamas ha rappresentato uno iato, non il primo per Israele, scippandole per un attimo quel grande moltiplicatore di potenza che è la sorpresa. Se è vero che l’operazione pager-walkie-talkie anti-Hezbollah riavvicina Tzahal ai suoi trascorsi, lo scontro più problematico con l’Iran è un’incognita, complici geopolitiche meta-imperiali incompatibili, incidenza di fattori pseudo-religiosi, ambizione per rotte commerciali irrinunciabili, armi, idrocarburi a iosa e «una carenza critica» di intercettori antimissilistici nella contraerea israeliana, evidenziata da fonti del quotidiano britannico Financial Times.

Tel Aviv gode della supremazia aerea totale a Gaza, in Libano, in Siria, in Iraq e in Yemen, ma in Iran, pur potendo effettuare raid massicci e dirompenti, non ha il supporto offensivo americano, che cambierebbe lo scenario, altrimenti ostico. Teheran e i proxy, pur molto indeboliti dai colpi incassati e sprovvisti della potenza dello Stato ebraico (in tecnologie, intelligence, combattimento aeroterrestre ed azioni in profondità), hanno massa di fanterie, artiglierie, missili e tolleranza alle perdite. Secondo uno scenario dell’università Reichman, citato dal quotidiano Jerusalem Post, una guerra multifronte contro il vertice iraniano ed Hezbollah, combattuta intensamente per un mese, potrebbe polverizzare il 7% della ricchezza nazionale ebraica e far lievitare il deficit di bilancio all’11,2% del Pil.

I dati consigliano mega-prudenza anche a Teheran, per l’economia in ginocchio, la moneta in caduta libera e un’iperinflazione che ha ridotto in povertà il 40% circa della popolazione. Il nazionalismo persiano, usualmente baluardo del paese, potrebbe essere un ricordo lontano e accomunare nel malcontento verso la guerra che arriva la base popolare iraniana, parte della sua elite ed elementi dell’esercito israeliano.